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I parchi, la cattiva coscienza e le buone intenzioni...

Parte prima


La questione dei Parchi è tornata di scottante attualità per il disegno di legge regionale 90/2015
sul riordino delle aree protette, che ne prevede, fra l'altro, un consistente ampliamento.
È una buona occasione per avviare una discussione seria, serena e priva di pregiudizi su parchi, vincoli, ecologia e valli alpine, prima che, come sempre, piovano dall'alto decisioni imposte e non condivise che non giovano affatto al già fragile sistema montagna.

Sarebbe anche l'occasione per ripensare all'intera questione della protezione del territorio e per far capire, a chi muove le leve a livello regionale, nazionale ed europeo, che democrazia significa ascoltare le istanze reali e concrete della gente che ancora vive in montagna e non seguire, come spesso succede, preconcetti ideologici, ecologismo a buon mercato o, più semplicemente l'odore dei soldi (nel senso del fiume di denaro comunitario spesso disponibile per grandi progetti, piani e altro ciarpame teorico, ma sempre carente quando si tratta di piccole iniziative concrete). L'argomento è complesso e delicato e vorrei contribuire alla discussione con un paio di interventi,
in cui riporto, oltre alle mie personali e opinabili idee, anche il parere di importanti studiosi (in particolare Werner Baetzing, geografo di fama mondiale che ha lavorato molto nelle nostre valli) e cerco di tracciare l'evoluzione storica del concetto di protezione della natura.

Parchi e aree protette nascono, a mio parere, da una serie di equivoci, dalla cattiva coscienza e dalle buone intenzioni. Queste ultime, servono in genere a coprire ciò che precede, mentre gli equivoci derivano, come capita spesso, da scarsa informazione, superficialità, presunzione o posizioni ideologiche aprioristiche.

Il primo grande equivoco riguarda l'idea di fondo che protezione della natura significhi rinunciare all'utilizzazione di una certa porzione di territorio. Una protezione, quindi, nei confronti dell'uomo stesso
e del suo lavoro, che è errata ed estranea a ogni civiltà contadina. La natura è il capitale del contadino e l'attività agricola del passato aveva come obiettivo principale proprio la conservazione e il miglioramento di questo patrimonio comune.

Il montanaro ha sempre avuto tutto l'interesse a preservare l'ambiente che gli dava da vivere, senza bisogno che qualche estraneo gli imponesse regole studiate a tavolino in lontani e comodi centri decisionali.
Il secondo equivoco è nel ruolo e nel concetto stesso di "natura".
Lasciar fare alla natura in montagna non è per niente naturale.

A parte i pochi ghiacciai superstiti alla febbre da civiltà del pianeta e quelli che nei Catasti settecenteschi erano classificati "precipizi, roche nude e rovine", nelle Alpi non esiste un territorio naturale non influenzato dall'uomo.

La wilderness (solita parola inglese che si è intrufolata nel nostro dizionario) si basa su un'ambiguità di fondo, spacciando per sviluppo spontaneo e non condizionato dall'uomo quello che nelle regioni alpine è soltanto un graduale abbandono, un rapido degrado e un triste e controproducente inselvatichimento.

Un ritorno alla preistoria, quando le Alpi erano coperte da cupe e uniformi foreste, prima che lo sforzo congiunto di natura, uomini e animali ci regalasse l'incomparabile bellezza e varietà del paesaggio montano.

Agricoltura e allevamento hanno prodotto quella che oggi, con termine alla moda, chiamiamo "biodiversità", ma che altro non è che la bellezza della varietà di generi e specie diverse inserite in un ambiente forgiato dalla presenza attiva di animali e uomini.
L'idea di proteggere la natura creando oasi incontaminate nasce in contesto urbano nel tardo ottocento, è un prodotto dalla società industriale e riflette una visione romantica della montagna.

La terribile e sistematica devastazione della natura provocata dalla civiltà industriale ha spinto, quasi per una sorta di compensazione, a scegliere delle aree economicamente considerate marginali in cui l'ambiente è tutelato.
Questa visione è a mio parere distorta, perché rende la montagna uno spazio complementare a quello urbanizzato, con funzioni compensative e ricreative e non una parte integrante e importante del tessuto culturale, produttivo, agricolo e residenziale.


Nasce non da una reale visione ecologica, ma dalla cattiva coscienza di chi, dopo aver permesso e promosso il degrado di ampie zone del territorio seminando a spaglio capannoni, rotonde, cemento e asfalto, per scrupolo, convenienza, ipocrisia o desiderio di compensazione progetta riserve indiane in cui nulla o quasi può essere toccato.
Uno spazio in cui accanto ad alberi e fiori crescono i cartelli di divieto, i parcheggi a pagamento, le guide, le guardie, le aree picnic.
Insomma, una natura artificiale che ha bisogno di vincoli e norme per sopravvivere e che è lo specchio (immagine contraria ma complementare e funzionale) della civiltà industriale.

Per i giorni feriali ci sono asfalto, cemento, capannoni, code, semafori, parcheggi a pagamento, per la domenica parcheggi a pagamento, code, abeti, sentieri, e panchine.
Identico sistema di vincoli, obblighi, multe e prescrizioni: cambia solo lo sfondo.
Su tutto, incombe la cappa della vessazione regolatoria (per cui tutto deve essere
rigidamente regolamentato) e l'ombra lunga dell'economia di mercato (per cui ogni cosa deve comunque "rendere")
.

Un'idea della protezione della natura inadeguata e sorpassata, nata sul modello dei parchi nazionali americani, quelli di Yoghi e Bubu e dei rangers, che si reggono però su un diverso modello culturale e ambientale e su vasti spazi incontaminati (che sulle Alpi non esistono più da diversi secoli).


Per questo, già nel lontano 1987 la CIPRA (Commissione internazionale per la protezione delle Alpi) aveva denunciato l'inadeguatezza di questo modello di protezione dell'ambiente basato sul non-utilizzo per promuovere l'idea di un'utilizzazione corretta, adeguata e responsabile.

A oltre 25 anni di distanza sarebbe l'ora di capire che occorre uscire dall'idea di aree protette (il 16% del territorio alpino) e farsi carico della responsabilità dell'intero territorio.
È anche importante capire che il territorio non è fatto solo di natura, ma anche e soprattutto di uomini, donne, animali (compresi i cani), economia, società, lavoro, case, cultura; che l'unico modo di difendere l'ambiente in montagna è quello di aiutare o almeno non continuare a ostacolare la vita e l'attività dei pochi agricoltori e allevatori rimasti; che di leggi, piani, norme, vincoli e divieti ce ne sono troppi e non sono mai serviti a molto, mentre mancano sempre di più i servizi essenziali.

Se si vuole aiutare la montagna non servono nuove aree protette, ma scuole, uffici postali, ambulatori medici, servizi di trasporto, scuolabus, strade percorribili, uffici decentrati.



I parchi, la cattiva coscienza e le buone intenzioni...

Parte seconda

La protezione della natura in montagna deve liberarsi di preconcetti ed equivoci e superare l'impostazione, ormai datata, del non utilizzo, della wilderness e della contrapposizione fra ambiente, uomo ed economia. Deve quindi essere completamente ripensata, partendo non più dal punto di vista del cittadino, che usa la montagna come valvola di sfogo e compensazione per lo squallore della quotidianità urbana, ma da quello di chi in montagna ci vive, traendone i mezzi di sussistenza.
Anche questa, però, non deve essere una contrapposizione: non c'è nessun conflitto di interessi, tutti traggono giovamento da un'attenzione globale e non puntiforme a tutto l'ambiente e il paesaggio.

Chi davvero protegge la montagna è il piccolo coltivatore (anche non professionale), il piccolo allevatore, il piccolo esercente.

Insomma, colui che continua, ostinatamente, a viverci e che è spesso perseguitato da quello stato che dovrebbe sostenerlo e aiutarlo.
Tutte categorie a forte rischio scomparsa (al contrario degli animali selvatici, caprioli, cervi, cinghiali, lupiche proliferano indisturbati, protetti e coccolati con enormi danni all'agricoltura e all'ambiente).

I maggiori nemici del montanaro superstite sono la burocrazia, l'accanimento regolatorio in materia igienico-sanitaria, una falsa idea di sicurezza e una politica normativa e fiscale persecutoria.

Tutti dicono di voler combattere la burocrazia e tutti si impegnano, invariabilmente, ad appesantirla e complicarla.
E l'unica cosa sicura, con l'attuale concetto di area protetta, è proprio il notevole appesantimento delle pratiche necessarie per la gestione di molti lavori e il relativo rischio di sanzioni.

L'accanimento burocratico uccide i piccoli imprenditori e i privati di buona volontà, giova invece alle grandi imprese, in grado di gestire il carico di norme e balzelli e, magari, di ritagliarsi scorciatoie più o meno legali. È quello che capita per le aziende di trasformazione, per quelle zootecniche, per quelle forestali, settori in cui sopravvivono più facilmente grandi realtà, spesso lontane dal mondo della montagna,capaci di muoversi nella giungla di norme, carte, adempimenti.


L'esatto contrario di quello che dovrebbe essere spirito e cultura delle valli, abitate fin da tempi remoti da piccoli "particolari", fieri dei loro spazi di libertà e autogestione. Perché la montagna è da sempre spazio di autonomia, rifugio durante le repressioni, incubatrice di resistenze a regimi oppressivi di ogni genere.


Una montagna svuotata di uomini, un'agricoltura senza contadini, un territorio non più presidiato:
è una triste prospettiva, ma èanche una realtà che conviene a qualcuno, che ha precisi interessi sugli immensi beni che le nostre valli possono offrire: l'acqua, la legna, gli alpeggi, le potenzialità turistiche, le strutture residenziali, i flussi di traffico.
Non è fantapolitica: è un progetto a cui qualcuno sta lavorando concretamente e da lungo tempo.
Magari con l'appoggio inconsapevole di onesti ambientalisti.


Per le aziende di piccole dimensioni e per gli agricoltori non professionali la vita in montagna può diventare impossibile. Portare un agnello in auto o un vitellino sul trattore, trasferire gli apiari, tagliare alberi, (tutte attività necessarie nella gestione concreta di una piccola azienda) può comportare multe assurde, la cui unità di misura, dell'ordine delle migliaia di euro, la dice lunga sulla lontananza siderale del legislatore dal mondo della montagna. Addirittura, molte azioni del tutto normali in un'azienda montana, hanno oggi rilevanza "penale".
Chi falsifica i bilanci aziendali se la cava con una sanzione amministrativa, ma chi lavora onestamente e duramente rischia di continuo di finire nel girone dantesco o kafkiano di una persecuzione insensata.

L'esame dei cambiamenti demografici ci mostra come in tutto il 1900 le alpi occidentali siano stato interessate da un forte esodo che ha causato un gravissimo spopolamento.
Negli ultimi anni in Francia il fenomeno non solo si è arrestato, ma c'è stata una notevole inversione di tendenza, mentre da noi la situazione è ancora drammatica.

Se volete capire il perché di questa differenza non è necessario consultare testi sociologici o antropologici: andate a fare un giro da quelle parti e vedrete giovani allevatori che vendono i loro formaggi di capra sulla bancarella del mercato, fatti sul gas della cucina e portati nel bagagliaio dell'auto.
Ogni paesino ha il suo mercato, il municipio, strade percorribili, servizi. L'ospitalità rurale è favorita e costituisce una buona integrazione al reddito aziendale.

Le regole sono poche e chiare, i controlli sono sulla sostanza più che sulla forma e non vessatori: nessuna persona onesta vive col terrore dell'ASL, della forestale, della finanza o dei loro equivalenti d'oltralpe.
Se non ci sarà un'inversione di tendenza sul fronte norme-controlli-sanzioni che permetta alle piccole realtà di lavorare serenamente e un concreto impegno nel garantire i servizi essenziali decentrati non è pensabile una duratura ripresa demografica nelle nostre montagne.
La mia perplessità sulla nuova legge in materia di aree protette ha anche altre ragioni, di carattere più generale. Con candore o faccia tosta, esponenti politici promotori dell'allargamento delle zone a parco hanno detto chiaramente che lo scopo, in fondo, è che "così arrivano i soldi dell'Unione Europea".
Insomma, le aree protette sono un modo di attirare finanziamenti, di deviare verso i nostri derelitti paesi un po' di quel fiume ininterrotto di denaro che da Bruxelles, diviso in mille meandri, va a irrigare le desolate lande periferiche. Sempre più spesso il motivo del "fare", fra politici e amministratori, è quello di "avere".
Per cui si fa qualcosa, qualsiasi cosa, non importa se sensata, economica, utile o meno, pur di intercettare un rivolo di quella massa fluida di denaro.

Nessuno dice mai, però, che quelli sono soldi nostri e nessuno obietta che il fare cose inutili con lo scopo di intercettare finanziamenti è una logica perversa, che ci impoverisce tutti.

Una tendenza di "fare per avere" che si è radicata in tutti i settori pubblici e privati: a scuola non si pagano i supplenti, ma si fa a gara a finanziare progetti a volte fantasiosi, strade di ogni ordine e grado sono una sequela ininterrotta di buche, ma in compenso si spendono milioni per trasformare le vie dei centri abitati in gimcane, secondo i dettami di urbanisti spesso più provvisti di fantasia che di senso pratico.

Altro problema delle aree protette è che non proteggono un granché. O meglio, proteggono in modo sbagliato.

In un parco può diventare difficile, costoso o impossibile mettere i pannelli solari sul tetto, recintarsi l'orto, costruire una tettoia per la legna, ma non ci sono problemi, invece, per le solite "grandi opere".
La demenziale autostrada di Cuneo attraversa tranquillamente il parco fluviale, ai tempi del progettato traforo del Mercantour l'opera prevista avrebbe interessato due parchi senza troppe difficoltà e nessuno scrupolo.
Quattro soldi (sempre nostri…) in opere "compensative" e il gioco è fatto. Insomma, è severamente vietato lasciar fare una corsa al cane, ma per i tir non ci sono problemi.
In conclusione, chi ha a cuore davvero l'ambiente e la montagna non può essere favorevole a questo modo di "proteggerla".
Le nostre valli e i nostri paesi hanno bisogno di persone, famiglie, coltivatori, allevatori, commercianti, esercenti, giovani, donne, bambini, scolari. Soprattutto, non hanno bisogno di altre norme, altri vincoli, altri divieti, altre imposizioni pensate da gente lontana ed estranea.

Un deserto, anche se coperto di alberi e pieno di animali selvatici, sulle nostre alpi non ha proprio nulla di naturale.

Lele Viola, Maggio 2015      (Pubblicato su carta stampata dal settimanale "La Guida" del 01-05-2015)

Immagini: Lana Biglia, Marzia Verona, Enrico Crespo, Paolo Giraudo, Claudio Pallard, Ezio Donadio