Intervista a Sergio Berardo del 19 aprile 2004.

D: Qual era la situazione culturale e politica nelle valli occitane d'Italia quando è nato Lou Dalfin?

Diciamo che quando è nato Lou Dalfin, vale a dire nella prima metà degli anni Ottanta (un tempo appena successivo a quello in cui io ho iniziato a interessarmi della musica tradizionale), era un momento in cui le vallate occitane d'Italia risentivano ancora del risveglio culturale e politico che si era verificato a partire dagli anni Sessanta, prima con la formazione dell' Escolo dou Po, poi con la formazione del MAO e di altre associazioni culturali (Valados Ousitanos, Lo Soulestrelh, il movimento dell' U.D.A.V.O.).
Erano momenti di grande fermento, di grande interesse da parte di alcuni settori della società delle valli nei confronti delle proprie radici, della propria origine, della propria identità. C'era parecchia gente che scriveva poesia, c'era un interesse letterario, poetico, un interesse linguistico nel senso di ritrovare, anzi di trovare (perché era una cosa che non si era mai fatta) il gusto di scrivere in una lingua che almeno qui da noi era stata considerata per tanto tempo soltanto una lingua parlata e non una lingua scritta.
Questo risveglio toccava anche la musica, si incominciava a rendersi conto che c'era tutto un patrimonio di danze e di musiche. Un risveglio che riguardava la consapevolezza di non essere soli: forse la cosa più interessante che il movimento occitano degli anni Sessanta-Settanta aveva portato era stata la consapevolezza che le valli non finivano dove cominciava il fiume che dava loro il nome, la cultura delle valli non finiva lì ma continuava dall'altra parte e questo è un qualcosa di molto radicato storicamente nella società delle nostre valli.
Pensiamo alla gente della Valle Maira che chiede al duca di Savoia di poter continuare ad andare a prendere il sale dove le piace vale a dire in Provenza o in Delfinato ma non a Dronero perché così le è più comodo; pensiamo allo stupore degli immigrati che si trovavano a varcare le Alpi per scendere in Provenza, lo stupore nel rendersi conto che la gente parlava allo stesso modo. Una certa coscienza ma episodica, sporadica. Il fatto che questo movimento culturale dicesse "Noi non siamo una muffa che è cresciuta attaccata a delle rocce in fondo a dei cul-de-sac ma siamo la frontiera verso un qualcos'altro" è stata secondo me la cosa più bella di tutto il movimento occitano di quei tempi. E quindi quando è nato Lou Dalfin si è risentito dell'influenza di questo risveglio culturale.

D: E per quanto riguarda la musica, c'erano degli altri gruppi occitani?

R: Come ti stavo dicendo prima anche la musica ha avuto un suo risveglio in quel periodo. Il risveglio musicale delle nostre valli è iniziato con persone che hanno incominciato a fare delle canzoni in lingua d'oc: ti citerò Masino Anghilante della Valle Varaita che già, penso, dalla fine degli anni Cinquanta, componeva delle canzoni in quello che allora si chiamava patois. C'era una corale delle valli valdesi (l'Abbadia Corale) che eseguiva del repertorio francese e piemontese anche in occitano, c'era la gente che cantava le sue canzoni però molto spesso le canzoni popolari non erano in occitano ma erano in francese, in piemontese o in italiano, non esiste una grandissima ricchezza di canto occitano tradizionale nelle nostre vallate.
C'erano poi dei ricercatori che andavano a registrare i vecchi suonatori che ancora rimanevano (ricercatori come Giampiero Boschero della Valle Varaita), andavano a raccogliere le danze, ne analizzavano le strutture, cercavano di riportarle in auge, e i giovani iniziavano un po' per volta a ballare.
In Val Vermenagna non c'è mai stata una grossa interruzione della tradizione (vale a dire di suonare corenta e balet, la danza tradizionale del luogo) però negli anni Sessanta c'è stata un po' di discesa, i suonatori cominciavano a trovare più gratificante e più alla moda suonare la musica sudamericana o il liscio o quello che poteva andare in quegli anni rispetto alla corenta.
Dalla fine degli anni Sessanta, inizio anni Settanta c'è una ripresa, una crescita di interesse. Nei primi anni Settanta nascono gruppi come i Troubaires de Coumboscuro, gruppo che faceva canzoni generalmente politiche, abbastanza marcate dal punto di vista della rivendicazione politica; c'era poi Dario Anghilante che faceva canzoni in occitano sulla scia di quello che stava succedendo nell'Occitania transalpina (i vari cantaires che iniziavano la loro attività canora: Marti, Mans de Breish ecc.).
Nascevano i primi gruppi di folk occitano: ti posso citare i Sonaires Occitans che è stato forse il primo gruppo di folk nelle valli nella seconda metà degli anni Settanta. Sono venuti poi a suonare nelle valli il gruppo del Conservatorio Occitano di Tolosa e il gruppo di Nizza e Provenza orientale Lou Bacias che hanno rappresentato veramente una "folgorazione" per molte persone che in quel periodo iniziavano a interessarsi alla musica tradizionale, hanno portato l'idea di folk-revival occitano.
Erano i tempi in cui c'era l' ACO (Accion Culturala Occitana), erano i tempi in cui in tutta l'Occitania nascevano una miriade di gruppi, dai Perlimpinpin ai Nadau in Guascogna, Lou Bacias e i Mont-Jòia in Provenza, Martina e Rosina De Peira, madre e figlia cantanti del Tolosano (Languedoc) che sono state importantissime, sono state forse le prime cantanti occitane. Nelle valli arriva l'eco di tutto questo e nascono così i primi gruppi. Io inizio a suonare con i Sonaires Occitans e un po' di anni dopo, nel 1981, decido di mettere su una formazione che faccia del folk-revival delle nostre valli: Lou Dalfin.


D: Come è nato Lou Dalfin?

R: Lou Dalfin è nato dalle ceneri di un altro gruppo: L'ome sarvage. Io suonavo la ghironda e nel 1981 avevo avuto l'idea di mettere su un gruppo di folk-rock che si chiamava L'ome sarvage, insieme a un musicista di Robilante, Livio Mandrile, che suonava la fisarmonica, la chitarra e il trombone, un bassista di Torino e un batterista di Mondovì, Silvio Negro detto 'Jack'.
Avevamo messo su questo gruppo rischiando il linciaggio perché aveva ancora da affermarsi il folk-revival nelle nostre valli (era il momento in cui questa musica si stava veramente sviluppando in Italia, pensiamo a Riccardo Tesi, ai vari gruppi che nascevano, ad esempio il Canzoniere del Lazio, c'era tutto un fermento) e io già volevo fare il rock'n'roll perché mi piaceva il rock'n'roll.
L'ome sarvage ha fatto qualche concerto e poi è finito miseramente. Io però volevo fermare su disco le cose che facevamo: quelli del gruppo non sono stati d'accordo e mi sono trovato da solo. Così ho messo su Lou Dalfin e ho proposto all'associazione culturale Lo Soulestrelh di lavorare per fare il disco; ho fatto delle registrazioni alle prove che però non sono venute molto bene e così Lo Soulestrelh non ha più voluto produrre questo disco.
Io ho deciso di farlo ugualmente con la Madau di Milano, non avevo i soldi per pubblicarlo a mie spese. C'ero io con la ghironda e l'organetto, c'era buonanima di Marco Origlia che suonava la chitarra e i flauti, Gianpaolo Delfino che suonava il violino e Alberto Gertosio che suonava il flauto. Questa era la prima formazione de Lou Dalfin. Facciamo questo disco intitolato En Franso Iero De Granda Guera che riscuote un certo interesse. Cambiamo poi formazione ( come sempre nei gruppi qualcuno esce, qualcuno ritorna) ed entrano Silvio Peron e Luciano Pasquero.


D: Che repertorio eseguiva il gruppo?

R: Eseguiva un repertorio di danze e canzoni delle nostre valli sia in occitano sia in francese. Io ero andato a registrare Robert Tagliero detto Robert le Diable, a Bobbio Pellice e lui mi aveva insegnato tante canzoni, anche in francese, del repertorio valdese.

D: Quanti dischi ha prodotto?

R: Ha prodotto due dischi: En Franso Iero De Granda Guera e L'aze d'Alegre. Mentre il primo pecca, se si esclude una demenza di mixaggio, di un'ingenuità che deriva dal fatto che qualcuno stava semplicemente iniziando a esplorare questo mondo di suoni, L'aze d'Alegre rimane un disco con un suo valore, un suo interesse.

D: Quali sono stati i concerti più importanti?

R: Con Lou Dalfin si era suonato moltissimo qui nelle valli, poi a festival in Lombardia, in Friuli, a Saint Chartier ecc. Io mi dividevo fra Lou Dalfin e L'Arp, un altro gruppo con cui suonavo a quei tempi, fino al 1987.

D: Che tipo di pubblico ascoltava la sua musica?

C'era sia il pubblico degli appassionati sia il pubblico della festa del paese. C'erano i volenterosi che, oltre alla serata di liscio, del rock, del cabaret, del mago o quello che diavolo si faceva (mi ricordo una terribile serata, quando ero ancora nel gruppo dei Sonaires Occitans, in cui io, che suonavo la chitarra in modo molto approssimativo, avevo dovuto fare il sottofondo musicale a un mago che si era esibito nell'intervallo della manifestazione) organizzavano anche la serata di musica occitana.
Era un pubblico da conquistare e soprattutto c'era pochissima gente che sapeva ballare, erano giri molto ristretti, molto piccoli, quindi tu facevi il concerto, raccontavi storie, descrivevi gli strumenti, tenevi la gente occupata per quell'ora, ora e mezza in cui suonavi. Era accettare la scommessa di tenere un pubblico con una ghironda come gli altri lo tenevano facendo altra musica: questo era quello che interessava a me. Poi magari alla fine si facevano delle cose da ballare e allora c'erano sempre i soliti quattro che ballavano la gigo tra di loro e nell'impeto di animazione coinvolgevano la gente. C'era Daniela Mandrile, che allora era mia moglie, che faceva ballare la gente e che tuttora svolge attività sulla danza tradizionale.


D: I componenti del gruppo svolgevano anche altre attività in campo musicale?

Sì, erano generalmente o persone molto giovani che lo facevano come hobby o persone che lo facevano come seconda attività oppure persone che avevano sempre avuto in testa l'idea di svolgerlo come attività principale ma questo era difficile perché dovevi inventarti il lavoro. Io ho dovuto inventarmi la mia attività, non è che sono andato nell'ufficio di collocamento dei suonatori di ghironda e ho chiesto dove c'era posto.
Ho sempre ritenuto, già da quei tempi, di doverlo fare come attività principale un po' perché mi andava di fare quello come lavoro, un po' perché mi accorgevo che c'era la possibilità di farlo, un po' perché ritenevo che avesse una giustificazione dal punto di vista culturale il fatto che qualcuno lavorasse su un territorio a livello professionale. Volevo suonare la ghironda, sapevo di suonarla abbastanza bene, quindi volevo farlo come lavoro e poi il resto dimostra che avevo ragione.


D: Per quanto tempo Lou Dalfin ha suonato con questa formazione e perché poi per un certo periodo la sua attività si è interrotta?

Lou Dalfin ha cominciato a fine'81-inizio '82 fino all'87 e poi la sua attività si è interrotta proprio perché io volevo fare il musicista di lavoro e mi era stata offerta la possibilità di suonare con la Ciaparusa, un importante gruppo di folk-revival piemontese. Dall'87 fino al '90 compresi io suono quindi con la Ciaparusa, svolgo attività concertistica in Italia e all'estero; abbiamo suonato dappertutto in Europa e fuori dall'Europa.
Con la Ciaparusa ho svolto un'attività notevole che mi ha permesso di sentire altri gruppi, di confrontarmi con altre realtà, con altre situazioni. Attività che io facevo continuando a fare la spola tra questo versante delle Alpi e l'altro, tenendo contatti con musicisti, citerò su tutti Alain Floutard e Robert Matta dei Freta-Monilh (poi Trencavel). Continuavo anche a fare un lavoro didattico sul territorio insegnando nelle scuole, organizzando stage, tenendo dei corsi di strumenti tradizionali che poi hanno trovato la loro sede nell'Istituto Musicale di Dronero.


D: Quando Lou Dalfin ha ripreso a suonare da chi era composta la nuova formazione?

Abbiamo iniziato a provare nell'autunno del '90 quando io mi accorgevo che con la Ciaparusa non avevo più voglia di andare in giro per tutta una serie di motivi, da questioni personali al fatto di dire "come, io faccio la musica tradizionale di un posto (facevamo soprattutto musica piemontese, alessandrina) poi vado a suonare in giro per il mondo e non suono mai in Piemonte, io vado a cantare in monferrino in Canada o in Finlandia e non canto in occitano qui nelle valli". Avevo voglia che questa musica vivesse nel suo territorio e quindi ho deciso di ritornare a suonare qui, di concentrare la mia attività su questo territorio ed è per questo che c'è tutto quello che c'è adesso.
La formazione era composta da Dino Tron, giovane fisarmonicista della Val Chisone che si era anche formato agli stage che tenevo io a Cervasca (poi si è formato con Daniele Ronchaille, un suonatore di ghironda che si era formato ai miei corsi in Val Chisone), Fabrizio Simondi, importantissimo per la genesi del modo di essere de Lou Dalfin; Fabrizio non è mai stato e non ha mai voluto essere un grande tecnico dello strumento sia per quanto riguarda il materiale che utilizzava sia per come suonava però è stato molto importante per un certo gusto, un certo modo di concepire i testi e per un certo modo di vivere la musica che nelle valli rompeva con l'immagine che si era formata fino a quel momento.
Fabrizio Simondi mi aveva consigliato un batterista che andava a scuola con lui, Riccardo Serra, da me conosciuto impersonalmente durante una festa a Borgo San Dalmazzo in cui aveva ecceduto con le libagioni e mi aveva fatto una bellissima impressione.
Io gli avevo detto che ero Berardo, quello con cui aveva parlato Simondi e lui diceva che non era vero, che Berardo era uno vecchio (si immaginava uno che suonava la ghironda in cima alla Val Grana, con la barba bianca). A noi si era unito Diego Origlia, un notevole chitarrista finger picking e un bassista, Giorgio Raimondi, il quale ha fatto un concerto con noi, il primo (28 dicembre del '90 al Silver bar di Caraglio), e poi è stato espulso dalla formazione per incompatibilità musicale e caratteriale.


D: Il materiale eseguito era diverso da quello precedente?

Lou Dalfin ha iniziato sia a eseguire materiale differente sia ad arrangiare in modo differente il materiale del passato. Mentre Lou Dalfin prima versione era un gruppo di folk-revival come tutti quelli che c'erano stati nelle nostre vallate fino ad allora, Lou Dalfin "nuovo" era quel gruppo di folk-rock che voleva essere l'abortito Ome sarvage dell'81.
Cercavamo di unire agli strumenti tradizionali atmosfere e strumenti dell'attualità per fare della musica popolare, della musica che fosse sì tradizionale ma che non fosse ristretta al solito giro dei volenterosi che ballavano la gigo perché faceva un po' "sarvage". Abbiamo poi deciso di fare i testi soltanto più in occitano: noi interpretiamo questa cultura, questo mondo, gli altri non sono né peggio né meglio di noi ma noi pensiamo che sia il momento di lavorare per questa cultura.


D: Quanti dischi ha prodotto Lou Dalfin fino a oggi e dove ha fatto i suoi concerti più importanti?

Per quanto riguarda i dischi cominciamo nel '92 con W Jan d'l'Eiretto che è stato la "boino", lo spartiacque della musica tradizionale delle nostre valli, un disco che nelle vallate ha avuto un successo come nessuno dei nostri dischi successivi ha avuto perché è stato veramente una novità assoluta: l'idea di una cultura occitana, una musica occitana fatta di vecchietta e vecchietto davanti alla casa che aspettano che cada e piangono veniva rovesciata.
Tu ti aspettavi di vedere gli occitani che arrivavano con i loro gruppi folkloristici, con un fisarmonicista "parkinsoniano", qualche giovane e qualche vecchietto che lanciavano degli urli strazianti per divertire i turisti: invece non era così, quest'immagine veniva completamente rovesciata. Erano delle persone giovani che suonavano con lo stesso spirito con cui avrebbero potuto suonare la musica "giovane", la musica "viva" e sono stati tutti sconvolti da questo. Un paio di anni dopo facciamo un disco, rivolto anche a un pubblico fuori dalle valli, intitolato Gibous Bagase e Bandì che vende anche abbastanza.
Poi abbiamo Radio Occitania Libra, Lo Viatge, l'infelice episodio de La Flor de Lo Dalfin (con un produttore che non era molto valido) che è stato veramente negativo per noi, e poi L'òste del diau. Quindi sono sei dischi a cui vanno aggiunti un singolo promozionale uscito l'anno scorso e un remix, anche lui promozionale, che era uscito un po' di anni fa per un'etichetta di Milano. Questi dischi hanno rappresentato un percorso, un itinerario. I concerti che ci tengo a ricordare sono il concerto del Primo maggio a Roma, il concerto di Saint Chartier recentemente, Milano Suona, Arezzo Wave, tutta una serie di festival importanti in Francia, dalla Normandia al festival di Neoules al Printemps de Bourges, festival nei Paesi Baschi, in Catalogna (il Mercat de Musica Viva di Vic, vicino a Barcellona), festival in Slovenia, al Villaggio Globale a Roma, in Veneto, in Svizzera ecc.


D: Qual è stata la portata dell'operato del gruppo nella situazione delle valli per quanto riguarda il pubblico, quindi la sua composizione, evoluzione?

Proprio il fatto che l'immagine della musica fosse totalmente cambiata ha fatto sì che un po' per volta, da settori molto marginali della società delle valli interessati alla musica tradizionale, si passasse al coinvolgimento di strati sempre più ampi di popolazione, a un pubblico sempre più vasto, più appassionato, più interessato.
C'era molto pubblico giovane ma anche meno giovane: noi abbiamo sempre cercato di non fare musica rivolta soltanto ai giovani ma di fare musica che fosse gradita un po' da tutti. Abbiamo fatto concerti dove c'era un pubblico veramente vario: dal pubblico che "pogava", al pubblico che ascoltava, al pubblico che ballava in modo tradizionale. L'abbiamo visto ampliarsi tantissimo, evolversi e diventare un pubblico che era sì delle valli ma anche esterno alle valli.
C'erano persone dal cuneese, saviglianese, monregalese, fossanese, dalla Langa (abbiamo fatto parecchi concerti nelle Langhe e nel Roero), dal torinese; c'era il pubblico dei centri sociali, il pubblico abituale dei concerti rock, il pubblico abituale dei concerti di Torino, il pubblico di Milano. Abbiamo suonato al Leoncavallo, nei centri sociali del Piemonte, del Nord-Est; un pubblico molto vario. La cosa importante nelle nostre vallate è stato che si è passato da un interesse molto marginale, molto di nicchia nei confronti della musica tradizionale, a un interesse di massa.
Mi ricordo che le prime feste de Lou Dalfin a Vernante sono state delle cose clamorose, con un afflusso di pubblico impensabile; se anche solo cinque anni prima avessero detto a una qualsiasi persona delle vallate "Tra cinque anni vanno 4000 persone ad un concerto di musica cantata in patois" gli avrebbero riso dietro, era una cosa impensabile: adesso è una cosa normale.


D: La cultura occitana e la sua immagine quali apporti hanno ricevuto dall'attività del gruppo?

R: Diciamo che con Lou Dalfin c'è stato un cambiamento di immagine, di modo di vivere la musica, la cultura, la tradizione, la lingua occitane. Si è passati da un vittimismo lacrimoso, piagnone, passeista a un'immagine positiva: non vincente e rampante, assolutamente no, non è che ci siamo messi la giacca e la cravatta e abbiamo fatto "forza occitania", non è assolutamente questo che voglio dire. Guardando al passato non abbiamo mai presentato un'immagine fatta di lustrini, un'immagine kitsch, come il liscio che si rinnova, che si veste di lustrini e che produce dei mostri come "il ballo del pinguino" o cose del genere.
E' stata la musica tradizionale che vive nel presente, nell'attualità, che trova la forza, gli strumenti, le energie per vivere nell'attualità e questo è un fenomeno abbastanza raro. Il Italia ci sono poche situazioni del genere, a parte la pizzica salentina e la musica popolare della Sardegna.
C'è il fenomeno Van de Sfroos nell'area comasca che però è legato soprattutto all'uso del dialetto e non a uno studio, a una rivisitazione, a una reinvenzione della tradizione popolare musicale. Lou Dalfin ha significato per la cultura occitana una voglia di Occitania da parte della gente, sia delle vallate sia esterna alle vallate. La musica de Lou Dalfin, secondo me, è stata il più grande testimonial che ha svolto gratuitamente questo genere di attività per le nostre vallate, molto più di baracconi plurimiliardari, anzi, adesso si dice plurimilionari, come Espaci Occitan.


D: La politica occitanista: cosa ne pensi e qual è stato il rapporto di Lou Dalfin con essa?

Lou Dalfin nella sua concezione più recente, quella del nuovo Lou Dalfin, non avrebbe potuto vivere senza una forte carica identitaria, occitanista, non sarebbe stata la stessa cosa. Abbiamo sempre cercato di non inquinare assolutamente questo nostro essere attaccati alle radici occitane con qualsiasi forma di localismo razzista, con qualsiasi forma di passatismo. Non abbiamo mai detto "Noi siamo occitani e siamo più furbi degli altri, noi siamo occitani e com'era bello una volta che non c'erano i marocchini e le donne stavano a casa", assolutamente niente di tutto ciò e questa è stata una cosa molto importante. Poi abbiamo cercato di insufflare un alito di vitalità in un occitanismo che da parecchi anni stava raschiando il fondo del barile ed era alle corde, ancorato a una visione troppo integralista, ad un modo di vivere e di vedere la politica minoritario, un po' fanatico, un po' ottuso.
Noi abbiamo fatto quello che potevamo però non vedo oggi molti segnali positivi; ci sono due tipi di spinte nell'occitanismo: una, sempre meno forte, è quella verso un certo tipo di massimalismo fondamentalista puro e duro, nazionalista diciamo, che ha sempre meno spazio e l'altra, quella molto più triste, è quella dell'occitanismo dei piccoli giochi politici, dei finanziamenti ai progetti, dei piccoli poteri politici, di chi si piazza, di un pragmatismo opportunista che mi fa rimpiangere il nazionalismo massimalista. Io sogno una forza politica per le nostre valli che faccia veramente politica, l'equivalente del Sudtiroler Volkspartei, dell'Union Valdotaine, però il realismo mi fa dire che un'assenza di coscienza politica, un'assenza di visione unitaria, il prevalere di piccoli particolarismi, di localismi, di personalismi, per il momento rende quest'ipotesi abbastanza remota, abbastanza utopistica.
Però si sa che il cammino dei popoli, il cammino delle nazioni come qualcuno le chiama, non è fatto di pochi anni, è fatto di secoli e quindi uno continua a tener viva una luce. Quante volte hanno dato per morta l'Occitania, quante volte poi c'è stato qualcosa che l'ha fatta rivivere. Chi l'avrebbe detto che nell'Ottocento sarebbe saltato fuori Mistral e che sarebbe nato il Felibrige, che la letteratura occitana sarebbe arrivata ad avere riconoscimenti come il Nobel, chi l'avrebbe detto che negli anni Settanta del XX secolo ci sarebbe stata una rinascita politica (pensiamo a movimenti come Volèm Viure al Pais), chi l'avrebbe detto che 3000-4000 persone sarebbero andate a un concerto di musica occitana, chi l'avrebbe detto che nel giro di pochi anni le bandiere occitane sarebbero state esposte dappertutto nelle valli.
Quindi uno continua a lavorare, da una parte per la legittima realizzazione delle proprie aspirazioni personali, dei propri progetti culturali e musicali, dall'altra parte per armonizzarli anche con un'idea più generale di adesione a una politica autonomista che a mio parere è l'unica strada per la vita delle nostre valli, non tanto per un discorso di piccole patrie, per un discorso di chiusure locali ma per un discorso che innegabilmente nasce dalla consapevolezza che la montagna, quando è inserita in meccanismi di potere in cui non conta niente, è condannata a morte, quando invece ha maggiore possibilità di decisione, quando il territorio ha possibilità di esprimersi, le cose si possono mettere meglio.
Però io credo che il più grosso nemico a tutto questo, alla realizzazione di una vita migliore per le vallate, al cambiare la situazione da provincia estrema a frontiera aperta verso l'Europa (situazione geografica strategica in cui le nostre valli si trovano), sta nel modo di pensare delle persone, sta nell'assenza di una classe intellettuale, di una classe dirigente, cosciente, fiera, per le nostre valli. Gli amministratori che si barcamenano, che si fanno comprare per quattro denari per questioni come quella dell'acqua, non è che sono dei poveracci venduti o altro, no, sono il riflesso di una situazione in cui la gente non ha coscienza di quello che potremmo essere se soltanto lo volessimo.