Intervista a Sergio Berardo
del 19 aprile 2004.
D: Qual era la situazione culturale e politica nelle valli occitane
d'Italia quando è nato Lou Dalfin?
Diciamo che quando è nato Lou Dalfin, vale a dire nella prima
metà degli anni Ottanta (un tempo appena successivo a quello
in cui io ho iniziato a interessarmi della musica tradizionale), era
un momento in cui le vallate occitane d'Italia risentivano ancora
del risveglio culturale e politico che si era verificato a partire
dagli anni Sessanta, prima con la formazione dell' Escolo dou Po,
poi con la formazione del MAO e di altre associazioni culturali (Valados
Ousitanos, Lo Soulestrelh, il movimento dell' U.D.A.V.O.).
Erano momenti di grande fermento, di grande interesse da parte di
alcuni settori della società delle valli nei confronti delle
proprie radici, della propria origine, della propria identità.
C'era parecchia gente che scriveva poesia, c'era un interesse letterario,
poetico, un interesse linguistico nel senso di ritrovare, anzi di
trovare (perché era una cosa che non si era mai fatta) il gusto
di scrivere in una lingua che almeno qui da noi era stata considerata
per tanto tempo soltanto una lingua parlata e non una lingua scritta.
Questo risveglio toccava anche la musica, si incominciava a rendersi
conto che c'era tutto un patrimonio di danze e di musiche. Un risveglio
che riguardava la consapevolezza di non essere soli: forse la cosa
più interessante che il movimento occitano degli anni Sessanta-Settanta
aveva portato era stata la consapevolezza che le valli non finivano
dove cominciava il fiume che dava loro il nome, la cultura delle valli
non finiva lì ma continuava dall'altra parte e questo è
un qualcosa di molto radicato storicamente nella società delle
nostre valli.
Pensiamo alla gente della Valle Maira che chiede al duca di Savoia
di poter continuare ad andare a prendere il sale dove le piace vale
a dire in Provenza o in Delfinato ma non a Dronero perché così
le è più comodo; pensiamo allo stupore degli immigrati
che si trovavano a varcare le Alpi per scendere in Provenza, lo stupore
nel rendersi conto che la gente parlava allo stesso modo. Una certa
coscienza ma episodica, sporadica. Il fatto che questo movimento culturale
dicesse "Noi non siamo una muffa che è cresciuta attaccata
a delle rocce in fondo a dei cul-de-sac ma siamo la frontiera verso
un qualcos'altro" è stata secondo me la cosa più
bella di tutto il movimento occitano di quei tempi. E quindi quando
è nato Lou Dalfin si è risentito dell'influenza di questo
risveglio culturale.
D: E per quanto riguarda la musica, c'erano degli altri gruppi
occitani?
R: Come ti stavo dicendo prima anche la musica ha avuto un suo risveglio
in quel periodo. Il risveglio musicale delle nostre valli è
iniziato con persone che hanno incominciato a fare delle canzoni in
lingua d'oc: ti citerò Masino Anghilante della Valle Varaita
che già, penso, dalla fine degli anni Cinquanta, componeva
delle canzoni in quello che allora si chiamava patois. C'era una corale
delle valli valdesi (l'Abbadia Corale) che eseguiva del repertorio
francese e piemontese anche in occitano, c'era la gente che cantava
le sue canzoni però molto spesso le canzoni popolari non erano
in occitano ma erano in francese, in piemontese o in italiano, non
esiste una grandissima ricchezza di canto occitano tradizionale nelle
nostre vallate.
C'erano poi dei ricercatori che andavano a registrare i vecchi suonatori
che ancora rimanevano (ricercatori come Giampiero Boschero della Valle
Varaita), andavano a raccogliere le danze, ne analizzavano le strutture,
cercavano di riportarle in auge, e i giovani iniziavano un po' per
volta a ballare.
In Val Vermenagna non c'è mai stata una grossa interruzione
della tradizione (vale a dire di suonare corenta e balet, la danza
tradizionale del luogo) però negli anni Sessanta c'è
stata un po' di discesa, i suonatori cominciavano a trovare più
gratificante e più alla moda suonare la musica sudamericana
o il liscio o quello che poteva andare in quegli anni rispetto alla
corenta.
Dalla fine degli anni Sessanta, inizio anni Settanta c'è una
ripresa, una crescita di interesse. Nei primi anni Settanta nascono
gruppi come i Troubaires de Coumboscuro, gruppo che faceva canzoni
generalmente politiche, abbastanza marcate dal punto di vista della
rivendicazione politica; c'era poi Dario Anghilante che faceva canzoni
in occitano sulla scia di quello che stava succedendo nell'Occitania
transalpina (i vari cantaires che iniziavano la loro attività
canora: Marti, Mans de Breish ecc.).
Nascevano i primi gruppi di folk occitano: ti posso citare i Sonaires
Occitans che è stato forse il primo gruppo di folk nelle valli
nella seconda metà degli anni Settanta. Sono venuti poi a suonare
nelle valli il gruppo del Conservatorio Occitano di Tolosa e il gruppo
di Nizza e Provenza orientale Lou Bacias che hanno rappresentato veramente
una "folgorazione" per molte persone che in quel periodo
iniziavano a interessarsi alla musica tradizionale, hanno portato
l'idea di folk-revival occitano.
Erano i tempi in cui c'era l' ACO (Accion Culturala Occitana), erano
i tempi in cui in tutta l'Occitania nascevano una miriade di gruppi,
dai Perlimpinpin ai Nadau in Guascogna, Lou Bacias e i Mont-Jòia
in Provenza, Martina e Rosina De Peira, madre e figlia cantanti del
Tolosano (Languedoc) che sono state importantissime, sono state forse
le prime cantanti occitane. Nelle valli arriva l'eco di tutto questo
e nascono così i primi gruppi. Io inizio a suonare con i Sonaires
Occitans e un po' di anni dopo, nel 1981, decido di mettere su una
formazione che faccia del folk-revival delle nostre valli: Lou Dalfin.
D: Come è nato Lou Dalfin?
R: Lou Dalfin è nato dalle ceneri di un altro gruppo: L'ome
sarvage. Io suonavo la ghironda e nel 1981 avevo avuto l'idea di mettere
su un gruppo di folk-rock che si chiamava L'ome sarvage, insieme a
un musicista di Robilante, Livio Mandrile, che suonava la fisarmonica,
la chitarra e il trombone, un bassista di Torino e un batterista di
Mondovì, Silvio Negro detto 'Jack'.
Avevamo messo su questo gruppo rischiando il linciaggio perché
aveva ancora da affermarsi il folk-revival nelle nostre valli (era
il momento in cui questa musica si stava veramente sviluppando in
Italia, pensiamo a Riccardo Tesi, ai vari gruppi che nascevano, ad
esempio il Canzoniere del Lazio, c'era tutto un fermento) e io già
volevo fare il rock'n'roll perché mi piaceva il rock'n'roll.
L'ome sarvage ha fatto qualche concerto e poi è finito miseramente.
Io però volevo fermare su disco le cose che facevamo: quelli
del gruppo non sono stati d'accordo e mi sono trovato da solo. Così
ho messo su Lou Dalfin e ho proposto all'associazione culturale Lo
Soulestrelh di lavorare per fare il disco; ho fatto delle registrazioni
alle prove che però non sono venute molto bene e così
Lo Soulestrelh non ha più voluto produrre questo disco.
Io ho deciso di farlo ugualmente con la Madau di Milano, non avevo
i soldi per pubblicarlo a mie spese. C'ero io con la ghironda e l'organetto,
c'era buonanima di Marco Origlia che suonava la chitarra e i flauti,
Gianpaolo Delfino che suonava il violino e Alberto Gertosio che suonava
il flauto. Questa era la prima formazione de Lou Dalfin. Facciamo
questo disco intitolato En Franso Iero De Granda Guera che riscuote
un certo interesse. Cambiamo poi formazione ( come sempre nei gruppi
qualcuno esce, qualcuno ritorna) ed entrano Silvio Peron e Luciano
Pasquero.
D: Che repertorio eseguiva il gruppo?
R: Eseguiva un repertorio di danze e canzoni delle nostre valli sia
in occitano sia in francese. Io ero andato a registrare Robert Tagliero
detto Robert le Diable, a Bobbio Pellice e lui mi aveva insegnato
tante canzoni, anche in francese, del repertorio valdese.
D: Quanti dischi ha prodotto?
R: Ha prodotto due dischi: En Franso Iero De Granda Guera e L'aze
d'Alegre. Mentre il primo pecca, se si esclude una demenza di mixaggio,
di un'ingenuità che deriva dal fatto che qualcuno stava semplicemente
iniziando a esplorare questo mondo di suoni, L'aze d'Alegre rimane
un disco con un suo valore, un suo interesse.
D: Quali sono stati i concerti più importanti?
R: Con Lou Dalfin si era suonato moltissimo qui nelle valli, poi a
festival in Lombardia, in Friuli, a Saint Chartier ecc. Io mi dividevo
fra Lou Dalfin e L'Arp, un altro gruppo con cui suonavo a quei tempi,
fino al 1987.
D: Che tipo di pubblico ascoltava la sua musica?
C'era sia il pubblico degli appassionati sia il pubblico della festa
del paese. C'erano i volenterosi che, oltre alla serata di liscio,
del rock, del cabaret, del mago o quello che diavolo si faceva (mi
ricordo una terribile serata, quando ero ancora nel gruppo dei Sonaires
Occitans, in cui io, che suonavo la chitarra in modo molto approssimativo,
avevo dovuto fare il sottofondo musicale a un mago che si era esibito
nell'intervallo della manifestazione) organizzavano anche la serata
di musica occitana.
Era un pubblico da conquistare e soprattutto c'era pochissima gente
che sapeva ballare, erano giri molto ristretti, molto piccoli, quindi
tu facevi il concerto, raccontavi storie, descrivevi gli strumenti,
tenevi la gente occupata per quell'ora, ora e mezza in cui suonavi.
Era accettare la scommessa di tenere un pubblico con una ghironda
come gli altri lo tenevano facendo altra musica: questo era quello
che interessava a me. Poi magari alla fine si facevano delle cose
da ballare e allora c'erano sempre i soliti quattro che ballavano
la gigo tra di loro e nell'impeto di animazione coinvolgevano la gente.
C'era Daniela Mandrile, che allora era mia moglie, che faceva ballare
la gente e che tuttora svolge attività sulla danza tradizionale.
D: I componenti del gruppo svolgevano anche altre attività
in campo musicale?
Sì, erano generalmente o persone molto giovani che lo facevano
come hobby o persone che lo facevano come seconda attività
oppure persone che avevano sempre avuto in testa l'idea di svolgerlo
come attività principale ma questo era difficile perché
dovevi inventarti il lavoro. Io ho dovuto inventarmi la mia attività,
non è che sono andato nell'ufficio di collocamento dei suonatori
di ghironda e ho chiesto dove c'era posto.
Ho sempre ritenuto, già da quei tempi, di doverlo fare come
attività principale un po' perché mi andava di fare
quello come lavoro, un po' perché mi accorgevo che c'era la
possibilità di farlo, un po' perché ritenevo che avesse
una giustificazione dal punto di vista culturale il fatto che qualcuno
lavorasse su un territorio a livello professionale. Volevo suonare
la ghironda, sapevo di suonarla abbastanza bene, quindi volevo farlo
come lavoro e poi il resto dimostra che avevo ragione.
D: Per quanto tempo Lou Dalfin ha suonato con questa formazione
e perché poi per un certo periodo la sua attività si
è interrotta?
Lou Dalfin ha cominciato a fine'81-inizio '82 fino all'87 e poi la
sua attività si è interrotta proprio perché io
volevo fare il musicista di lavoro e mi era stata offerta la possibilità
di suonare con la Ciaparusa, un importante gruppo di folk-revival
piemontese. Dall'87 fino al '90 compresi io suono quindi con la Ciaparusa,
svolgo attività concertistica in Italia e all'estero; abbiamo
suonato dappertutto in Europa e fuori dall'Europa.
Con la Ciaparusa ho svolto un'attività notevole che mi ha permesso
di sentire altri gruppi, di confrontarmi con altre realtà,
con altre situazioni. Attività che io facevo continuando a
fare la spola tra questo versante delle Alpi e l'altro, tenendo contatti
con musicisti, citerò su tutti Alain Floutard e Robert Matta
dei Freta-Monilh (poi Trencavel). Continuavo anche a fare un lavoro
didattico sul territorio insegnando nelle scuole, organizzando stage,
tenendo dei corsi di strumenti tradizionali che poi hanno trovato
la loro sede nell'Istituto Musicale di Dronero.
D: Quando Lou Dalfin ha ripreso a suonare da chi era composta la
nuova formazione?
Abbiamo iniziato a provare nell'autunno del '90 quando io mi accorgevo
che con la Ciaparusa non avevo più voglia di andare in giro
per tutta una serie di motivi, da questioni personali al fatto di
dire "come, io faccio la musica tradizionale di un posto (facevamo
soprattutto musica piemontese, alessandrina) poi vado a suonare in
giro per il mondo e non suono mai in Piemonte, io vado a cantare in
monferrino in Canada o in Finlandia e non canto in occitano qui nelle
valli". Avevo voglia che questa musica vivesse nel suo territorio
e quindi ho deciso di ritornare a suonare qui, di concentrare la mia
attività su questo territorio ed è per questo che c'è
tutto quello che c'è adesso.
La formazione era composta da Dino Tron, giovane fisarmonicista della
Val Chisone che si era anche formato agli stage che tenevo io a Cervasca
(poi si è formato con Daniele Ronchaille, un suonatore di ghironda
che si era formato ai miei corsi in Val Chisone), Fabrizio Simondi,
importantissimo per la genesi del modo di essere de Lou Dalfin; Fabrizio
non è mai stato e non ha mai voluto essere un grande tecnico
dello strumento sia per quanto riguarda il materiale che utilizzava
sia per come suonava però è stato molto importante per
un certo gusto, un certo modo di concepire i testi e per un certo
modo di vivere la musica che nelle valli rompeva con l'immagine che
si era formata fino a quel momento.
Fabrizio Simondi mi aveva consigliato un batterista che andava a scuola
con lui, Riccardo Serra, da me conosciuto impersonalmente durante
una festa a Borgo San Dalmazzo in cui aveva ecceduto con le libagioni
e mi aveva fatto una bellissima impressione.
Io gli avevo detto che ero Berardo, quello con cui aveva parlato Simondi
e lui diceva che non era vero, che Berardo era uno vecchio (si immaginava
uno che suonava la ghironda in cima alla Val Grana, con la barba bianca).
A noi si era unito Diego Origlia, un notevole chitarrista finger picking
e un bassista, Giorgio Raimondi, il quale ha fatto un concerto con
noi, il primo (28 dicembre del '90 al Silver bar di Caraglio), e poi
è stato espulso dalla formazione per incompatibilità
musicale e caratteriale.
D: Il materiale eseguito era diverso da quello precedente?
Lou Dalfin ha iniziato sia a eseguire materiale differente sia ad
arrangiare in modo differente il materiale del passato. Mentre Lou
Dalfin prima versione era un gruppo di folk-revival come tutti quelli
che c'erano stati nelle nostre vallate fino ad allora, Lou Dalfin
"nuovo" era quel gruppo di folk-rock che voleva essere l'abortito
Ome sarvage dell'81.
Cercavamo di unire agli strumenti tradizionali atmosfere e strumenti
dell'attualità per fare della musica popolare, della musica
che fosse sì tradizionale ma che non fosse ristretta al solito
giro dei volenterosi che ballavano la gigo perché faceva un
po' "sarvage". Abbiamo poi deciso di fare i testi soltanto
più in occitano: noi interpretiamo questa cultura, questo mondo,
gli altri non sono né peggio né meglio di noi ma noi
pensiamo che sia il momento di lavorare per questa cultura.
D: Quanti dischi ha prodotto Lou Dalfin fino a oggi e dove ha fatto
i suoi concerti più importanti?
Per quanto riguarda i dischi cominciamo nel '92 con W Jan d'l'Eiretto
che è stato la "boino", lo spartiacque della musica
tradizionale delle nostre valli, un disco che nelle vallate ha avuto
un successo come nessuno dei nostri dischi successivi ha avuto perché
è stato veramente una novità assoluta: l'idea di una
cultura occitana, una musica occitana fatta di vecchietta e vecchietto
davanti alla casa che aspettano che cada e piangono veniva rovesciata.
Tu ti aspettavi di vedere gli occitani che arrivavano con i loro gruppi
folkloristici, con un fisarmonicista "parkinsoniano", qualche
giovane e qualche vecchietto che lanciavano degli urli strazianti
per divertire i turisti: invece non era così, quest'immagine
veniva completamente rovesciata. Erano delle persone giovani che suonavano
con lo stesso spirito con cui avrebbero potuto suonare la musica "giovane",
la musica "viva" e sono stati tutti sconvolti da questo.
Un paio di anni dopo facciamo un disco, rivolto anche a un pubblico
fuori dalle valli, intitolato Gibous Bagase e Bandì che vende
anche abbastanza.
Poi abbiamo Radio Occitania Libra, Lo Viatge, l'infelice episodio
de La Flor de Lo Dalfin (con un produttore che non era molto valido)
che è stato veramente negativo per noi, e poi L'òste
del diau. Quindi sono sei dischi a cui vanno aggiunti un singolo promozionale
uscito l'anno scorso e un remix, anche lui promozionale, che era uscito
un po' di anni fa per un'etichetta di Milano. Questi dischi hanno
rappresentato un percorso, un itinerario. I concerti che ci tengo
a ricordare sono il concerto del Primo maggio a Roma, il concerto
di Saint Chartier recentemente, Milano Suona, Arezzo Wave, tutta una
serie di festival importanti in Francia, dalla Normandia al festival
di Neoules al Printemps de Bourges, festival nei Paesi Baschi, in
Catalogna (il Mercat de Musica Viva di Vic, vicino a Barcellona),
festival in Slovenia, al Villaggio Globale a Roma, in Veneto, in Svizzera
ecc.
D: Qual è stata la portata dell'operato del gruppo nella
situazione delle valli per quanto riguarda il pubblico, quindi la
sua composizione, evoluzione?
Proprio il fatto che l'immagine della musica fosse totalmente cambiata
ha fatto sì che un po' per volta, da settori molto marginali
della società delle valli interessati alla musica tradizionale,
si passasse al coinvolgimento di strati sempre più ampi di
popolazione, a un pubblico sempre più vasto, più appassionato,
più interessato.
C'era molto pubblico giovane ma anche meno giovane: noi abbiamo sempre
cercato di non fare musica rivolta soltanto ai giovani ma di fare
musica che fosse gradita un po' da tutti. Abbiamo fatto concerti dove
c'era un pubblico veramente vario: dal pubblico che "pogava",
al pubblico che ascoltava, al pubblico che ballava in modo tradizionale.
L'abbiamo visto ampliarsi tantissimo, evolversi e diventare un pubblico
che era sì delle valli ma anche esterno alle valli.
C'erano persone dal cuneese, saviglianese, monregalese, fossanese,
dalla Langa (abbiamo fatto parecchi concerti nelle Langhe e nel Roero),
dal torinese; c'era il pubblico dei centri sociali, il pubblico abituale
dei concerti rock, il pubblico abituale dei concerti di Torino, il
pubblico di Milano. Abbiamo suonato al Leoncavallo, nei centri sociali
del Piemonte, del Nord-Est; un pubblico molto vario. La cosa importante
nelle nostre vallate è stato che si è passato da un
interesse molto marginale, molto di nicchia nei confronti della musica
tradizionale, a un interesse di massa.
Mi ricordo che le prime feste de Lou Dalfin a Vernante sono state
delle cose clamorose, con un afflusso di pubblico impensabile; se
anche solo cinque anni prima avessero detto a una qualsiasi persona
delle vallate "Tra cinque anni vanno 4000 persone ad un concerto
di musica cantata in patois" gli avrebbero riso dietro, era una
cosa impensabile: adesso è una cosa normale.
D: La cultura occitana e la sua immagine quali apporti hanno ricevuto
dall'attività del gruppo?
R: Diciamo che con Lou Dalfin c'è stato un cambiamento di immagine,
di modo di vivere la musica, la cultura, la tradizione, la lingua
occitane. Si è passati da un vittimismo lacrimoso, piagnone,
passeista a un'immagine positiva: non vincente e rampante, assolutamente
no, non è che ci siamo messi la giacca e la cravatta e abbiamo
fatto "forza occitania", non è assolutamente questo
che voglio dire. Guardando al passato non abbiamo mai presentato un'immagine
fatta di lustrini, un'immagine kitsch, come il liscio che si rinnova,
che si veste di lustrini e che produce dei mostri come "il ballo
del pinguino" o cose del genere.
E' stata la musica tradizionale che vive nel presente, nell'attualità,
che trova la forza, gli strumenti, le energie per vivere nell'attualità
e questo è un fenomeno abbastanza raro. Il Italia ci sono poche
situazioni del genere, a parte la pizzica salentina e la musica popolare
della Sardegna.
C'è il fenomeno Van de Sfroos nell'area comasca che però
è legato soprattutto all'uso del dialetto e non a uno studio,
a una rivisitazione, a una reinvenzione della tradizione popolare
musicale. Lou Dalfin ha significato per la cultura occitana una voglia
di Occitania da parte della gente, sia delle vallate sia esterna alle
vallate. La musica de Lou Dalfin, secondo me, è stata il più
grande testimonial che ha svolto gratuitamente questo genere di attività
per le nostre vallate, molto più di baracconi plurimiliardari,
anzi, adesso si dice plurimilionari, come Espaci Occitan.
D: La politica occitanista: cosa ne pensi e qual è stato
il rapporto di Lou Dalfin con essa?
Lou Dalfin nella sua concezione più recente, quella del nuovo
Lou Dalfin, non avrebbe potuto vivere senza una forte carica identitaria,
occitanista, non sarebbe stata la stessa cosa. Abbiamo sempre cercato
di non inquinare assolutamente questo nostro essere attaccati alle
radici occitane con qualsiasi forma di localismo razzista, con qualsiasi
forma di passatismo. Non abbiamo mai detto "Noi siamo occitani
e siamo più furbi degli altri, noi siamo occitani e com'era
bello una volta che non c'erano i marocchini e le donne stavano a
casa", assolutamente niente di tutto ciò e questa è
stata una cosa molto importante. Poi abbiamo cercato di insufflare
un alito di vitalità in un occitanismo che da parecchi anni
stava raschiando il fondo del barile ed era alle corde, ancorato a
una visione troppo integralista, ad un modo di vivere e di vedere
la politica minoritario, un po' fanatico, un po' ottuso.
Noi abbiamo fatto quello che potevamo però non vedo oggi molti
segnali positivi; ci sono due tipi di spinte nell'occitanismo: una,
sempre meno forte, è quella verso un certo tipo di massimalismo
fondamentalista puro e duro, nazionalista diciamo, che ha sempre meno
spazio e l'altra, quella molto più triste, è quella
dell'occitanismo dei piccoli giochi politici, dei finanziamenti ai
progetti, dei piccoli poteri politici, di chi si piazza, di un pragmatismo
opportunista che mi fa rimpiangere il nazionalismo massimalista. Io
sogno una forza politica per le nostre valli che faccia veramente
politica, l'equivalente del Sudtiroler Volkspartei, dell'Union Valdotaine,
però il realismo mi fa dire che un'assenza di coscienza politica,
un'assenza di visione unitaria, il prevalere di piccoli particolarismi,
di localismi, di personalismi, per il momento rende quest'ipotesi
abbastanza remota, abbastanza utopistica.
Però si sa che il cammino dei popoli, il cammino delle nazioni
come qualcuno le chiama, non è fatto di pochi anni, è
fatto di secoli e quindi uno continua a tener viva una luce. Quante
volte hanno dato per morta l'Occitania, quante volte poi c'è
stato qualcosa che l'ha fatta rivivere. Chi l'avrebbe detto che nell'Ottocento
sarebbe saltato fuori Mistral e che sarebbe nato il Felibrige, che
la letteratura occitana sarebbe arrivata ad avere riconoscimenti come
il Nobel, chi l'avrebbe detto che negli anni Settanta del XX secolo
ci sarebbe stata una rinascita politica (pensiamo a movimenti come
Volèm Viure al Pais), chi l'avrebbe detto che 3000-4000 persone
sarebbero andate a un concerto di musica occitana, chi l'avrebbe detto
che nel giro di pochi anni le bandiere occitane sarebbero state esposte
dappertutto nelle valli.
Quindi uno continua a lavorare, da una parte per la legittima realizzazione
delle proprie aspirazioni personali, dei propri progetti culturali
e musicali, dall'altra parte per armonizzarli anche con un'idea più
generale di adesione a una politica autonomista che a mio parere è
l'unica strada per la vita delle nostre valli, non tanto per un discorso
di piccole patrie, per un discorso di chiusure locali ma per un discorso
che innegabilmente nasce dalla consapevolezza che la montagna, quando
è inserita in meccanismi di potere in cui non conta niente,
è condannata a morte, quando invece ha maggiore possibilità
di decisione, quando il territorio ha possibilità di esprimersi,
le cose si possono mettere meglio.
Però io credo che il più grosso nemico a tutto questo,
alla realizzazione di una vita migliore per le vallate, al cambiare
la situazione da provincia estrema a frontiera aperta verso l'Europa
(situazione geografica strategica in cui le nostre valli si trovano),
sta nel modo di pensare delle persone, sta nell'assenza di una classe
intellettuale, di una classe dirigente, cosciente, fiera, per le nostre
valli. Gli amministratori che si barcamenano, che si fanno comprare
per quattro denari per questioni come quella dell'acqua, non è
che sono dei poveracci venduti o altro, no, sono il riflesso di una
situazione in cui la gente non ha coscienza di quello che potremmo
essere se soltanto lo volessimo.