Intervista a Dino Tron del
17 luglio 2004.
D: Qual era la situazione culturale, politica e musicale nelle
valli occitane d’Italia quando è nato Lou Dalfin?
Io te ne parlo con gli occhi entusiastici di un diciottenne dei tempi.
Per quanto riguarda la musica sicuramente la situazione era anni luce
indietro rispetto a quello che possiamo vedere adesso. C’erano principalmente
tre isole musicali: per quanto riguarda i suonatori tradizionali c’era
la Valle Vermenagna dove la tradizione non si è mai interrotta,
ha avuto dei momenti di flessione, dei momenti di calo, dei momenti
di rinnovato interesse però non si è mai interrotta.
Questa è un’esperienza diversa perché non era una lettura
analoga a quella che abbiamo poi fatto noi in seguito come musicisti
in qualche modo inseriti nel folk-revival ma erano invece suonatori
popolari, per loro era la loro musica tradizionale, come la gente
delle valli parlava l’occitano senza rendersene conto e diceva semplicemente
parliamo a “nosto modo”, se vuoi è un fenomeno che può
avere un parallelo su una cosa del genere.
In Val Varaita, grazie alla Baìo e a cose di questo genere,
c’era una situazione in cui la musica tradizionale era abbastanza
forte, per quanto legata a fenomeni strettamente locali. Per quanto
riguarda le altre vallate c’era un centro che faceva capo all’attività
didattica di Sergio Berardo: questo è sempre stato un qualcosa
al di sopra delle righe, cioè un approccio professionale, un
approccio didattico alla divulgazione della musica tradizionale. Ricordo
che quando ho conosciuto Sergio avevo sedici anni circa e in quel
periodo a lui era stata affidata per il primo anno la cattedra di
strumenti occitani all’Istituto Musicale di Dronero e c’erano quattro
persone iscritte.
Questo esperimento, se non ricordo male, era stato fatto anche un
po’ su spinta degli occitanisti che facevano capo al Movimento Autonomista
Occitano (MAO) e a Ousitanio vivo (per intenderci, Dario e Ines):
non avendo delle personalità che lavorassero nell’ambito musicale,
si erano affidati ad un esterno (cioè a Sergio) per cercare
di sviluppare questo discorso.
So che un altro centro di minore attività, di minore importanza,
però che comunque aveva sempre un approccio serio, era quello
che faceva capo al gruppo degli Artesin di cui facevano parte Gianrenzo
Dutto, Lele Viola, Lucia Norbiato e Gianni Giraudo. Poi sono cambiati
alcuni componenti e il gruppo ha preso il nome di Senhal. Questi gruppi
facevano una lettura più tradizionale del repertorio, più
attaccata alla tradizione, ci sono anche stati momenti di scontro
a livello ideologico sulla stampa occitanista. Io penso che ci siano
delle letture diverse e che ci sia spazio per tutti, mi sembra giusto
rispettare questi gruppi come mi fa piacere che loro rispettino quello
che abbiamo fatto noi.
Gli Artesin (poi Senhal) lavoravano essenzialmente sul repertorio
della Valle Vermenagna e della Val Varaita e sul repertorio delle
valli occitane in genere rifacendosi anche stilisticamente a un’esperienza
musicale importante che è quella del gruppo Lou Bacias di Nizza
composto da Michel Bianco (poi diventato componente del Corou de Berra),
Patrick Vaillant e Jacques Magnan che sono stati i primi musicisti
che hanno girato qui nelle valli nella metà degli anni Settanta,
hanno insegnato uno stile di approccio alla musica tradizionale e
hanno insegnato a molti di quelli che sono i musicisti di oggi (Sergio
medesimo ha studiato con Michel Bianco, poi Gianrenzo Dutto, Silvio
Peron hanno collaborato con questi musicisti).
I musicisti che facevano capo al Senhal e all’Artesin facevano un
lavoro più strettamente filologico piuttosto che di composizione.
C’era Giampiero Boschero con la sua associazione Lo Soulestrelh che
faceva uscire dei libri, delle raccolte di brani musicali suonati
strettamente com’erano gli stilemi esecutivi di un tempo che fu (che
non si sa bene neanche se fosse veramente esistito). Era uscito un
libro sul repertorio di Jousep da Rous, un violinista della Val Varaita.
Questa era la situazione delle valli cuneesi. Per quanto riguarda
le valli pinerolesi invece c’era la Cantarana di Pinerolo, un gruppo
che forse non ha avuto come punto di forza tanto l’espressione musicale
quanto l’attività di ricerca; ha fatto un’enorme campagna di
ricerche durata dal ‘77 all’89 in cui ha registrato tutti i cantori
e tutti i suonatori popolari che è riuscita a trovare nelle
Valli Chisone e Germanasca. Qui il repertorio era particolarmente
complesso, particolarmente sovrapposto perché si incrociavano
le culture e le fedi religiose cattolica e valdese e quindi la cultura
francese; nelle valli valdesi la gente parlava comunemente quattro
lingue: francese, italiano, occitano e piemontese, ognuna relegata
ad un ambito particolare.
La Cantarana ha fatto, dal mio punto di vista, un’attività
di riproposta sempre filologicamente molto corretta ed è stata
molto preziosa perché noi adesso abbiamo a disposizione tutto
questo materiale che è stato trascritto e registrato. Quindi
riassumendo i centri erano tre: uno era l’attività didattica
di Sergio Berardo con i suoi gruppi didattici, i suoi gruppi musicali,
la sua grossa attività nelle vallate; un’attività di
stampo più filologico che faceva capo ai gruppi Senhal e Artesin
e la grossa attività di ricerca fatta in capo alla Cantarana
che è anche stato uno dei gruppi che ha organizzato uno dei
primi festival folk itineranti qui nella vallata, il Cantavalli.
Va citato anche il centro di attività di Santo Lucio di Coumboscuro:
i suoi musicisti però suonavano ad un livello strumentale a
mio avviso discutibile, soprattutto perché non tolleravano
i punti di vista diversi dal loro o delle chavi di lettura diverse;
si sono anche creati una Provenza idealistica che c’è solo
da loro.
A parte l’attività di Sergio e l’attività dei Senhal
e Artesin gli altri erano piuttosto scollegati dal mondo delle valli
nel senso che facevano cose forse un po’ per il turista che veniva
nelle vallate. Un’ultima parentesi va fatta a favore dei gruppi folkloristici;
ce n’è stato a un certo punto un proliferare per le vallate,
alcuni con delle intenzioni un po’ più corrette, vedi i gruppi
della Val Vermenagna, nel senso che erano semplicemente della gente
che ballava, i Balarin d’la Turusela, il gruppo folkloristico di Limone,
il gruppo di Robilante, erano semplicemente gente che ballava comunemente
che si metteva il costume per far ridere il turista però era
gente che aveva questa pratica comunemente e soprattutto non inventava
delle coreografie.
Il gruppo della Val Chisone, il gruppo della Val Po e il gruppo della
Val Varaita si erano anche inventati un po’ di cose di contorno che
a un certo punto scadevano nel manierismo domenicale, amerei definirlo.
Sicuramente in questi ultimi quindici anni c’è stato un grosso
salto di qualità e la musica occitana si è diffusa molto;
mentre una volta era necessario a volte farsi 200 Km per andare a
una serata di danze occitane (c’erano degli appassionati che giravano
per le vallate e andavano alle serate di ballo occitano) adesso è
diventata una forma di divertimento molto più comune.
D: Com’è nato Lou Dalfin?
Io avevo dieci anni quando è nata la prima vita de Lou Dalfin,
posso dirti quello che sono riuscito a ricostruire, quello che ho
sentito, quello che comunque ho vissuto anche se con gli occhi di
poco più di un bambino. Lou Dalfin è stato un gruppo
successivo all’esperienza de L’ome sarvage. L’ome sarvage era, se
vogliamo, un antesignano di quello che è poi diventato Lou
Dalfin negli anni Novanta: c’era Sergio che suonava la ghironda, Livio
Mandrile che suonava l’organetto, poi basso, chitarra e batteria.
I tempi non erano assolutamente maturi per una riproposta di questo
genere, su qualche intervista devo aver letto che venivano degli occitanisti
“della domenica” a lanciare le pietre ai concerti, degli etnomusicologi
puristi “della domenica”, insomma, l’esperienza si disfa e nasce Lou
Dalfin, più aderente ai canoni del folk-revival del tempo.
Se sentiamo i dischi di quel periodo infatti era un modo di interpretare
la musica molto affine a quello dei dischi de Lou Bacias, de Lo Jai
(un grande gruppo francese di musica occitana del Limosino), della
Ciaparusa; tutti questi gruppi si erano ispirati alla riproposta folk
che proveniva dalla Francia che a sua volta arrivava dal folk-rock
britannico. Quindi un utilizzo di strumenti tradizionali che insieme
non avevano mai suonato perché il folk-revival è già
di per sé un’invenzione nel senso che strumenti come la ghironda,
l’organetto, il flauto e il violino insieme non hanno mai suonato,
non compaiono negli organici tradizionali, questa è un’affiliazione
di quel modo di leggere la musica.
Lou Dalfin fa il primo disco En Franso Iero de Granda Guera; il brano
che gli dà il titolo è una ballata di cui proprio qui
nelle valli Chisone e Germanasca ne sono state raccolte sette versioni
(due in piemontese, quattro in francese e una in occitano che non
si sa bene se ci fosse già o se sia stata tradotta, questo
è ancora da chiarire). Insomma, Lou Dalfin nasce come gruppo
di riproposta di musica tradizionale occitana inserendosi a pieno
titolo nel canale del folk-revival del tempo. Lo strumentario era
costituito da ghironda, organetto, c’erano un plettrista e un violinista.
In questo disco Sergio suonava la ghironda e l’organetto perché
Livio Mandrile che suonava l’organetto aveva lasciato il grupppo quindici
giorni prima per ragioni che ignoro ma penso per qualche discussione,
per qualche divergenza di idee.
Poi c’era Marco Origlia, un plettrista molto bravo purtroppo scomparso
prematuramente, poi Delfino che suonava il violino e Alberto Gertosio
che suonava il flauto traverso. In quel periodo non si trovavano ancora
tutti gli strumenti tradizionali facilmente come si trovano adesso,
infatti il traverso e l’ottavino venivano utilizzati invece del fifre,
non c’erano ancora costruttori che facessero dei fifre affidabili
come adesso, era molto difficile riuscire a procurarseli. In questo
primo disco, non ho mai chiesto a Sergio ma penso che il gruppo abbia
attinto molto al repertorio di un cantore valdese della Val Pellice,
un certo Robert Tagliero detto Robert le Diable, chiamato la memoria
vivente della Val Pellice al quale anche molti musicologi si sono
rivolti (mi pare che sapesse 500 canzoni a memoria in occitano, francese,
piemontese e italiano). Nel disco ci sono diverse canzoni che fanno
parte del repertorio tradizionale valdese, A l’age de quatorze ans,
Il prigioniero di Saluzzo, per esempio, e poi ci sono pezzi di riproposta
di danze tradizionali delle valli, ad esempio la gigo vitouno.
Per questo disco Sergio si era rivolto a molti ospiti esterni, la
presentazione era stata fatta da Maurizio Martinotti del Centro di
Cultura Popolare “Giuseppe Ferraro” di Alessandria. Com’è fisiologico
in tutti i gruppi, si cambiano un po’ di musicisti: entrano Silvio
Peron e Luciano Pasquero.
Nell’84 viene registrato il secondo disco, L’aze d’Alegre. Questo
è un disco che dimostra sicuramente una maturità maggiore
sia a livello di arrangiamenti sia a livello di padronanza degli strumenti;
c’è anche un utilizzo abbastanza cospicuo del clavicembalo,
probabilmente Sergio Berardo era in un momento barocco del suo genio
musicale. I musicisti che hanno suonato in questo disco sono: Sergio
Berardo (ghironda), Silvio Peron (organetto e fisarmonica), Luciano
Pasquero (clarinetto) e Marco Origlia (plettri e chitarra). Questo
disco interpreta una serie di danze e di canzoni popolari delle valli
sempre poi attingendo ancora al repertorio valdese, per esempio Le
siège de Coni, e c’è anche una piccola incursione nel
repertorio “savant” della ghironda: ci sono le due contraddanze di
Bodin de Boismortier, scritte per ensemble composti da ghironda e
musette nel periodo in cui la ghironda godeva di molta attenzione
a corte.
Il gruppo, penso per ragioni di volontà soprattutto di Sergio
e di Silvio Peron di intraprendere cammini artistici diversi, si disfa
e nasce quella che penso sia stata a livello tecnico e musicale una
delle maggiori esperienze di musica occitana delle valli d’Italia
che è L’Arp.
Sergio continua a essere il motore del gruppo e si affianca ad un
musicista di Torino, Enrico Mignone (grande polistrumentista, nell’Arp
suonava la ghironda e la fisarmonica), e ad un altro bravissimo musicista
francese, François Dujardin che suonava il galoubet e tamburino
e il violino. L’Arp abbandona gli stilemi del folk-revival e la riproposta
di pezzi tradizionali per andare sulla composizione di nuovi brani,
un po’ sulla falsa riga delle danze tradizionali quindi mantenendo
gli schemi, un po’ invece facendo proprio delle cose nuove, attingendo
anche al repertorio di altri musicisti, per esempio Carmarino scritta
da un bravissimo cantaire provenzale, Jan Nouvé Mabelly. Questo
gruppo aveva due formazioni, tre elementi o cinque elementi (quest’ultima
con contrabbasso e chitarra) e questa è stata la musica occitana
che ho conosciuto io, il primo gruppo di musica occitana che ho sentito
è stato questo e per me è stato molto importante perché
era un gruppo che aveva un livello tecnico molto alto, continuava
a mantenere il suono de Lou Dalfin però c’era questa volontà
di proporre composizioni nuove con un organico comunque tradizionale.
Questo gruppo poi muore, Sergio entra nella Ciaparusa e fa anche dei
progetti estemporanei tipo Lou Nouvé de l’Argentiera in cui
aveva realizzato una musicassetta musicando un manoscritto trovato
da Monsignor Riberi nella chiesa di Sambuco, in Valle Stura; è
costituito da composizioni di Natale e vi suonano musicisti a cui
Sergio si era rivolto solo per fare questo disco. Nel ’90 decidiamo
di rifare Lou Dalfin, io e Sergio abbiamo iniziato a collaborare in
due, lui stava terminando la sua esperienza con la Ciaparusa.
Facevamo delle serate di vario tipo, dalle serate di ballo a interventi
nelle biblioteche a lezioni-concerto; si sentiva comunque la mancanza
nelle valli di un gruppo “faro”, di un gruppo che avesse delle cose
da dire, di un gruppo che fosse veramente rappresentativo delle valli
occitane e per un periodo ci siamo interrogati se riproporre il nuovo
Lou Dalfin sempre con una veste più aderente ai canoni del
folk-revival quindi mettendoci ghironda, organetto e innestando dei
musicisti di estrazione classica tipo clarinetto, flauto traverso
e strumenti di questo genere, oppure andare decisamente verso una
cosa diversa, una cosa nuova, più rock.
D: Che tipo di pubblico c’era ai concerti del “vecchio” Lou Dalfin?
Mio padre mi deve avere portato a un concerto da bambino; da una parte
c’era un pubblico di addetti ai lavori, di persone appassionate della
musica commerciale solita che volevano sentire questi nuovi gruppi
(anche perché ai tempi l’etnomusicologia era una disciplina
che stava appena cominciando a farsi largo e c’erano persone che volevano
sentire questi suoni diversi), persone appassionate di repertorio
tradizionale, finché la cosa si è poi sfilacciata in
persone che andavano alla ricerca solamente di occasioni per ballare,
disgiungendosi anche un po’ da un certo gusto estetico musicale (cioè
non importava loro che il gruppo suonasse bene o male l’importante
era che facesse la gigo e la corenta a dei tempi preconizzati da non
si sa bene quale entità superiore, e andava bene così).
Per quanto riguarda L’Arp era un pubblico di persone che volevano
sentire suonar bene, L’Arp era di altissimo livello tecnico, tre musicisti
che suonavano benissimo e quindi facevano una musica molto gradevole,
molto fruibile, molto godibile, suonata molto bene.
D: Per quanto tempo Lou Dalfin ha suonato con questa formazione
e perché poi per un certo periodo la sua attività si
è interrotta?
Si deve andare in due direzioni per rispondere a questa domanda: un
po’ Sergio sicuramente si era stufato della situazione (non riusciva
a proporre delle cose trovando degli interlocutori validi), un po’
penso che abbia anche collaborato con la Ciaparusa per capire come
si gestisce un gruppo, come si lavora in un gruppo (è stata
anche una scuola per lui) e la Ciaparusa per quanto abbia suonato
più all’estero che in Italia è stato sicuramente il
più importante gruppo di musica folk italiana; penso che per
quanto sia una collaborazione non finita benissimo lui abbia comunque
poi portato ne Lou Dalfin molta dell’esperienza a livello musicale,
a livello tecnico acquisita con questo gruppo che conduceva una vita
professionale. Terminata l’esperienza con la Ciaparusa Sergio mi diceva
che aveva avuto molta voglia di tornare perché voleva suonare
a casa sua, voleva suonare nelle valli; a un certo punto penso che
possa importarti poco di suonare nei più importanti folk festival
del mondo quando da te non sanno neanche chi sei e questa è
stata una decisione molto importante.
D: Come è cambiato il pubblico?
Una parte è riuscita ad adattarsi, quella che non è
riuscita ad adattarsi era composta da persone alle quali se facevi
pagare un biglietto non entravano e magari ballavano fuori (con gli
amplificatori si sentiva anche fuori), non compravano un disco ed
erano sempre gravide di livide critiche per qualsiasi tua attività.
Il pubblico de Lou Dalfin è cambiato ed è diventato
da una parte i giovani delle valli che si riconoscono in questo tipo
di sonorità; io non ti faccio un discorso politico perché
non sono molto ferrato e generalmente rifuggo un po’ da queste cose
per indole però il fatto di aver identificato l’inno occitano,
avere riproposto la musica in un certo modo, poi soprattutto (penso
di non peccare di presunzione) proponendo finalmente uno spettacolo
che non sia una cosa vecchia e imbalsamata, sono state cose molto
importanti. Il pubblico adesso è composto dall’appassionato
del gruppo che vuole sentirlo, che magari ha tutta la sua discografia,
da chi vuole sentire della buona musica (della musica che ha un certo
riscontro quindi presumo che sia una cosa gradevole), e poi soprattutto
il pubblico delle valli e questa è una cosa importante a cui
io, ma penso tutti, teniamo molto perché in momenti difficili
ti ha sempre aiutato ad andare avanti; ci sono anche stati dei momenti
meno felici: i vari cambi di formazione, incomprensioni interne (quelle
ci sono in qualsiasi microcosmo umano che superi la”una” persona quindi
da due in avanti).
D: Da chi era composta la nuova formazione?
Conoscevamo musicisti qua e là, abbiamo provato a chiedere
un po’ in giro. Una persona che aveva chiesto a Sergio per lungo tempo,
se non di suonare insieme comunque di avere una qualche forma di collaborazione,
era Fabrizio Simondi, organista e direttore di coro di Pradleves nonché
ingegnere elettronico e professore di fisica alle superiori, persona
molto attaccata alle tradizioni, scrive testi in lingua d’oc molto
interessanti e continua ancora adesso a collaborare con noi. Fabrizio
suonava le tastiere, è stato la prima persona con cui abbiamo
suonato e ha portato un suo amico, un eccellente batterista di Cuneo
con radici in Val Varaita, che conosceva molto bene il repertorio
tradizionale, Riccardo Serra, e questo è stato il quartetto
che è andato avanti per un bel pezzo. Insieme a noi c’era anche
Diego Origlia, un eccellente chitarrista cuneese, anche lui conosceva
un po’ i suoni, i canti e i testi tradizionali perché il padre
cantava in una corale di Cuneo.
Diego ha voluto dire molto per questa formazione de Lou Dalfin a livello
di arrangiamento e a livello di apporto perché allora era un
musicista che aveva molte cose da dire. Per un certo periodo abbiamo
avuto anche un bassista poi però ci sono state una serie di
incomprensioni, abbiamo fatto il primo concerto con lui e poi è
finita la collaborazione. Siamo andati avanti in cinque, facevamo
il basso con le tastiere. Abbiamo fatto il primo concerto al Silver
bar di Caraglio il 28 dicembre del ’90. Nella primavera del ’91 abbiamo
fatto il primo vero concerto al circolo Splendor di Caraglio ed è
stato molto bello, ho ancora la registrazione adesso, il livello tecnico
era già alto, pur con tutte le ingenuità del tempo,
e si aveva l’impressione che stesse nascendo qualcosa di importante,
anche per l’entusiastica risposta del pubblico.
Questa formazione è andata avanti per un bel po’ poi a un certo
punto Diego Origlia ha deciso di intraprendere una strada diversa,
aveva voglia di percorrere una strada da solista; so che si è
trasferito in Sud America per studiare la musica di lì e poi
e tornato a vivere in Francia. Lui suonava la chitarra acustica e
la chitarra elettrica, era però prettamente un chitarrista
acustico quindi questa formazione a cavallo tra il ’90 e il ’92 è
stata quella di passaggio nel senso che Lou Dalfin non era più
il “vecchio” Lou Dalfin completamente aderente agli stilemi del folk-revival
ma non era neanche quella proposta musicale come gruppo che, se vogliamo,
ha inventato uno stile musicale occitano suo.
C’erano dei momenti molto acustici, dei momenti in cui non suonava
la batteria, si sperimentava insomma, non si sapeva bene dove si sarebbe
andati ma si sperimentava. Quando è andato via Diego Origlia
abbiamo deciso di prendere un chitarrista che fosse prettamente elettrico
e ha suonato con noi Fabrizio Dutto di Cuneo con cui abbiamo fatto
parecchi concerti. In seguito alla partenza per il servizio civile
di Fabrizio Simondi che faceva l’indispensabile ruolo di basso con
le tastiere, abbiamo deciso di prendere un bassista ed è entrato
a far parte del gruppo Enrico Damilano. A questo punto il gruppo ha
avuto una vera line-up rock: chitarra, basso, batteria e tastiere
che lavoravano in sezione ritmica e due strumentisti che suonavano
gli strumenti tradizionali, io e Sergio.
Si abbandonano i pezzi più soft per andare alla ricerca di
un suono sempre più di attacco, con un uso della chitarra elettrica
sempre più importante. Cambiamo di nuovo chitarrista, arriva
Alfredo Piscitelli che suonava con i Losco Mobile e che ha suonato
con noi per ben nove anni. Alfredo non è un chitarrista sopra
le righe ma ha un suono molto personale e soprattutto sa adattarsi
bene, sa lavorare bene sul repertorio tradizionale. Poi abbiamo cambiato
alcuni bassisti, è entrato nel gruppo Daniele Giordano, un
eccellente musicista che è stato, con bonarietà dico,
un “arrampicatore sociale” perché è stato prima il nostro
fonico poi, quando Marco Martinetto (il nostro fonico abituale) è
tornato, Daniele è andato a suonare il basso al posto di Enrico
Damilano. Il primo disco fatto con questa formazione composta da Sergio
Berardo, Fabrizio Simondi, Alfredo Piscitelli, Riccardo Serra, Enrico
Damilano e io è stato Gibous Bagase e Bandì, uno dei
dischi più importanti de Lou Dalfin, registrato da Madaski,
il tastierista degli Africa Unite.
Questo disco ha avuto due anni di gestazione, dei pezzi molto provati,
molto belli, ricercati su libri, alcune cose di nuova composizione
poi soprattutto un accostamento molto giusto tra le parti tradizionali
e le parti rielaborate (soprattutto da Sergio e da Fabrizio); sembrava
un tutt’uno, una cosa continua, non si sentiva la giustapposizione
tra due parti, una preesistente e una di nuova composizione. Questo
è il primo disco che ha una produzione e una distribuzione
serie e comincia a girare a dei festival, a delle manifestazioni con
una certa visibilità da parte del pubblico.
Grazie all’intensa attività live dei due anni precedenti e
poi all’uscita di questo disco c’è stato il salto di qualità:
Lou Dalfin è riuscito a diventare un gruppo a visibilità
nazionale. Poi con un grosso lavoro di artigianato, suonando veramente
dappertutto, prima nelle vallate poi in tutto il Piemonte, in Val
d’Aosta, in Francia, con un lavoro di “cesello”, andando a suonare
anche per le date isolate, a volte non proprio in condizioni perfettamente
ideali, si è riuscito a creare quello che è il fenomeno
Lou Dalfin: un certo nome, una certa visibilità, un certo rispetto
per le realtà musicali. Io e Sergio per esempio un anno abbiamo
partecipato come suonatori tradizionali alla festa delle leve in Val
Vermenagna: avevano finito i suonatori del posto e quindi hanno chiamato
due che suonassero delle corente. Anche la collaborazione con i musicisti
tradizionali come i suonatori di fifre (abbiamo suonato alla festa
del fifre e in un’infinità di altre manifestazioni) è
stata importante, assieme ad un attento approccio, ad un certo rispetto
per il materiale tradizionale; rispetto non vuol dire imbalsamarlo
e riproporlo tale e quale ma vuol dire lavorarci sopra senza snaturarlo.
Questo è stato il discorso compositivo de Lou Dalfin.
D: Quanti dischi ha prodotto Lou Dalfin?
Ti faccio un rapido excursus: il primo è stato En Franso Iero
de Granda Guera nell’82, poi L’aze d’Alegre nell’84, poi L’Arp ha
fatto una cassetta di ballo, 12 danze occitane, che per molti versi,
secondo me, rimane insuperabile ancora tutt’oggi. Poi Lou Nouvé
de l’Argentiera, e poi il primo disco del “nuovo” Lou Dalfin registrato
nell’autunno-inverno ’91-’92 e uscito a giugno del ’92, prodotto da
Ousitanio vivo e intitolato W Jan d’l’Eiretto.
Il brano che dà il titolo al disco è una corenta, Jan
d’l’Eiretto era un suonatore tradizionale delle borgate sopra Perrero
in Val Germanasca e c’era questa canzoncina diffusa lì, la
classica canzone a ballo utilizzata dai suonatori per memorizzare
le parole di una corenta. Questo disco è una fotografia di
quello che è Lou Dalfin in quel periodo: ci sono dei pezzi
acustici, la batteria è usata ancora in maniera molto percussiva,
molto soft, c’è un grosso uso della chitarra acustica però
c’è veramente qualcosa di nuovo; secondo me è stato
un disco fondamentale, molto importante.
Poi nel ’95 viene inciso Gibous Bagase e Bandì, prodotto da
Madaski che ha lasciato un’impronta molto forte; è stato un
disco importante, Lou Dalfin si è fatto conoscere a livello
nazionale per i pezzi contenuti in quel disco e quando abbiamo suonato
l’altra sera prima degli Ska-p e abbiamo fatto i pezzi di quel disco
la gente ha “fatto salti alti così” perché c’erano tutta
una serie di condizioni per cui quell’album ha avuto una gestazione
lunga e difficoltosa ma sicuramente con un risultato molto accattivante.
L’anno successivo esce Radio Occitania Libra, un live registrato in
parte al Salone della Musica di Torino e in parte negli studi della
radio svizzera italiana in collaborazione con il gruppo basco Sustraia.
A questo progetto, secondo i voleri del direttore artistico che era
Fabrizio Gargarone dell’Hiroshima Mon Amour di Torino, dovevano partecipare
anche i Massilia Sound System poi, per una serie di problemi che sono
più spesso legati ai manager che non ai gruppi stessi, non
si era riusciti a concretizzare il progetto con questo terzo gruppo.
Ci sono stati due grossi concerti in cui suonavano due batteristi,
due fisarmonicisti, due chitarristi, due bassisti, due cantanti e
quindi c’erano dieci, undici musicisti sul palco. Abbiamo fatto un
concerto molto importante a Torino in cui è stata fatta una
prima ripresa di tutto il concerto, un’altra in Svizzera sempre di
tutto il concerto poi prendendo pezzi di qua e di là è
stato confezionato questo album che avrebbe dovuto dare adito a una
collaborazione più duratura, ad una tournée forse europea,
poi purtroppo il progetto non è stato realizzato per una serie
di problemi logistici nel senso che spostare così tanti musicisti
e creare delle occasioni per esibirsi insieme è difficile,
serve un impianto doppio, un numero doppio di tecnici, di mezzi di
trasporto, quindi si sono fatti dei concerti molto belli (uno a Saluzzo,
uno a Caraglio, uno a Torino e alcuni nei Paesi Baschi) e poi la collaborazione
è terminata. Questo disco fotografa l’esperienza live con il
gruppo basco dei Sustraia.
Nel ’98 esce Lo Viatge, registrato a Mondovì, un disco che
diventa più gotico sia come composizioni sia come sonorità,
prodotto da Hairi Vogel ed Enrico Damilano per la Noys che era un’etichetta
collaterale della Sony per la produzione di musica di qualità,
etichetta che purtroppo, come spesso succede in questo ramo, è
stata chiusa un anno dopo e tutto il catalogo è stato trasferito
nel catalogo madre della Sony. Questo disco ha a livello compositivo
alcune perle di grandissimo valore come Lo Viatge, il brano che gli
dà il titolo. Questo è stato un disco registrato in
studio.
Due anni dopo esce La Flor de Lo Dalfin, un disco antologico. A fianco
di questa dimensione più propriamente prosaica, quasi idilliaca,
di produzione di musica, suonare, dischi ecc. c’è poi quella
più strettamente pratica che è l’incontro con manager
e cialtroni di varia natura che non è lo scopo della nostra
intervista ma può servire a chiarificare alcuni momenti discografici
meno felici; La Flor de Lo Dalfin è stato forse uno di questi
momenti, nonostante abbia ricevuto molte critiche positive da un versante
più acustico perché è un disco che è stato
suonato con queste intenzioni; si sono avuti una serie di problemi
a livello di produzione, ci han perso degli strumenti, ci sono stati
una serie di pasticci, insomma era un disco che forse è stato
bene fare anche per rendersi conto della nuova strada da intraprendere.
Il bassista e il chitarrista che avevamo, Daniele Giordano e Alfredo
Piscitelli, decidono poi di smettere di collaborare per ragioni sia
personali, sia di altro lavoro, forse anche di scelte artistiche un
po’ diverse, e noi prendiamo due nuovi musicisti, Gianluca Dho, già
bassista de Lou Seriol, e Christian Coccia, chitarrista di Torino,
un grande vero chitarrista elettrico secondo me.
La rinnovata energia, il rinnovato ambiente del gruppo hanno portato
a una produzione di nuove composizioni in linea con gli standard più
alti degli anni precedenti (come Gibous Bagase e Bandì) e poi
soprattutto una registrazione fatta da un produttore discografico,
Josh Sanfelici, già Mau Mau ecc. che ha saputo metterci del
suo senza esagerare e finalmente è uscito fuori un disco che
fotografa veramente la musica de Lou Dalfin e raccoglie una serie
di collaborazioni fatte negli anni, da Vincenzo Zitello che una volta
è venuto a suonare alla festa de Lou Dalfin, alla sezione di
fiati della Oliver River Gess Band che ha collaborato con noi in alcuni
concerti e di cui abbiamo poi inglobato anche un componente, Alessandro
Montagna trombettista d’eccezione. Poi abbiamo un nuovo elemento che
collabora con noi sempre meno saltuariamente che è Mario Poletti,
un plettrista che suona buzuki e mandolino. Questa è una cosa
che si ricollega al primo Lou Dalfin dell’82 (anche allora c’era un
plettrista, Marco Origlia). Questa è la nostra formazione attuale
con un suono sempre più caratterizzato; con l’andare degli
anni il suono si è personalizzato.
D: Qual è stata la portata dell’operato del gruppo nella
situazione delle valli?
Prima de Lou Dalfin nelle valli c’era il gruppetto di musica occitana
che girava a suonare, soprattutto la domenica pomeriggio perché
probabilmente questi gruppi non erano ritenuti abbastanza “pieni”
da poter mantenere un sabato sera, notte in cui tradizionalmente la
gente fa più festa.
Se volevi andare a ballare della musica tradizionale andavi in Val
Vermenagna dove ci sono le feste delle leve con i suonatori tradizionali,
avevi qualche sporadica occasione nell’alta Val Germanasca dove la
presenza valdese, un attaccamento alla tradizione e alla lingua più
forte rispetto alla vicina Val Chisone (grazie anche al maggior isolamento)
avevano fatto sì che ci fossero ancora dei suonatori tradizionali
(si facevano le gare di corente); oppure andavi in Val Varaita ma
lì la Baìo la fanno solo una volta ogni cinque anni.
Quindi o si andava a ballare le danze del posto con i suonatori tradizionali
o diversamente non era ben diffusa la coscienza di un occitanismo;
per esempio nelle valli del sud, dalla Val Varaita a scendere, la
gente non diceva parlare occitano ma diceva parlare a “nosto modo”,
nelle valli della provincia di Torino (Val Pellice, Chisone e Germanasca)
che hanno sempre gravitato culturalmente verso la Francia (lo dimostra
il fatto che abbiamo tutti un cognome francese), si utilizzava il
termine francese “patois” per indicare una lingua diversa dalla lingua
di stato, quindi noi diciamo parlare il “patois”; il termine “occitano”
ha cominciato ad essere veicolato da Lou Dalfin, anche se i vecchi
dicono ancora parlare a “nosto modo” o in “patois”.
La situazione era quella, a parte alcune isole felici dove si insegnava
ancora ai bambini a parlare il dialetto; c’era un profondo disamore
per questa cultura, disamore nel senso che nessuno sapeva cosa fosse.
C’era il classico professore di lettere delle scuole superiori che
tra le sue varie passioni aveva quella di roccogliere i termini per
fare il dizionario, c’erano poi gli accademici dell’università
che però non sono noti per avere una presa sul popolare, l’università
è un posto dove si fa cultura ma molto spesso la cultura non
esce da lì. Lou Dalfin ha avuto il merito di popolarizzare
una proposta musicale e popolarizzare un’idea; anche se può
essere un po’ naif però con cultura occitana identifichiamo
Lou Dalfin, sentiamo cantare in un certo modo, sentiamo della musica
in un certo modo, sentiamo un mucchio di altre cose più e meno
belle, voglio dire, nessuno ha inventato niente, però Lou Dalfin
ha avuto questo merito.
Adesso il marchio occitano è conosciuto dappertutto, a volte
è usato anche a sproposito. C’erano in tutte le valli gli interventi
quasi da “hobbista”, chi faceva il corso di lingua ecc., sono state
tutte cose importanti però mancava una vera e propria coscienza,
un elemento che facesse da detonatore; Lou Dalfin è stato questo,
il suo mezzo espressivo è stata la musica. Ci sono state tante
altre espressioni (il teatro in lingua d’oc, libri in lingua d’oc)
ma non hanno mai avuto la presa che ha avuto Lou Dalfin forse proprio
perché non riuscivano a popolarizzare l’idea di cultura occitana.
D: C’è stata un’evoluzione nella composizione del pubblico?
Sì, una volta c’era un pubblico di addetti ai lavori. C’è
una festa di un giornale locale da queste parti, La Valado, a cui
va ancora quel tipo di pubblico. Questo è iniziato come giornale
che scriveva in occitano, come emanazione del Club Alpino Italiano
di Villaretto quindi era un bollettino informativo, poi ha avuto sempre
più attenzione da un punto di vista letterario.
Questa è una festa chiusa su se stessa, viene tanta gente perché
si fa la polentata però chiamano sempre gli stessi quattro
gruppi folkloristici, leggono le loro poesie sempre le stesse tre
persone; sinceramente se tu dici a una persona di quindici anni di
andare a questa festa lui ti dice “ma vai tu”.
Questo secondo me è stato quello che ha frenato lo sviluppo
di questa cultura. Lou Dalfin invece ha un pubblico variegato, dalla
culla alla tomba perché c’è chi porta i bambini piccoli
a sentirci e, per esempio in Val Vermenagna, vengono i suonatori anche
anziani a sentirci. In mezzo a questi due estremi c’è una panoplia
di appassionati di cultura popolare, il giornalista del folk bulletin
di Milano; va tutto bene, è importante avere un pubblico stratificato
con cui confrontarti.
L’importante è riuscire a trovare il giusto mezzo per comunicare
con le persone che vengono per sentire una cosa più immediata
e con quelli che invece vengono con un piglio più scientifico,
più culturale: è importante riuscire a stare nel giusto
mezzo. Lou Dalfin ci è riuscito, ha avuto da una parte una
correttezza filologica, etnomusicologica, musicale e dall’altra tutto
questo è stato portato in maniera che tutti potessero usufruirne
secondo il loro grado di cultura e questo è importante.
D: La cultura occitana e la sua immagine quali apporti hanno ricevuto
dall’attività del gruppo?
Da molte parti in Italia e soprattutto in Francia si identifica la
musica occitana con Lou Dalfin. In Francia esperienze simili sono
avvenute nelle città, a Marsiglia con i Massilia Sound System,
a Nizza con i Nux Vomica, a Tolosa con i Freta-Monilh (poi Trencavel),
mentre nelle zone rurali non ci sono stati gruppi che abbiano avuto
una grossa presa come Lou Dalfin ha avuto qui.
Mi aveva raccontato Dario Anghilante che era andato in Francia, nell’Occitania
francese, per degli scambi con le associazioni culturali e parlando
con la gente di queste zone si era sentito dire “Ah ma voi avete Lou
Dalfin, certo che da voi è un altro par di maniche”. Con Lou
Dalfin io intendo anche tutto il suo indotto: persone che suonano,
corali, i vostri gruppi ecc.; secondo me è stato un fenomeno
importante per quello, ha stabilito una sorta di marchio di qualità
della riproposta della musica occitana. Mentre in Francia (io l’ho
visto, siamo stati a suonare in un paese vicino a Tolosa) negli anni
Settanta c’era un fermento bestiale per la rinascita della musica
occitana, c’era il movimento di Volèm Viure al Pais, ecc. adesso
la situazione è desolante, c’è poca gente ai concerti
di musica tradizionale, ci sono pochi giovani.
Da noi è diverso: alle feste, senza parlare adesso de Lou Dalfin
che è il gruppo maggiore ma parlando di altri gruppi quali
possono essere stati formazioni collaterali in cui abbiamo collaborato
tutti, i vostri gruppi, i gruppi miei prima, c’è sempre stato
un avvicinarsi di persone maggiore e soprattutto meno addette ai lavori,
meno prese da fisime mentali di celebrare chissà quale rito;
vai a divertirti come prima andavi a divertirti con l’orchestra di
liscio o con la discoteca.
Questo per il pubblico delle valli è stato importante, molti
giovani penso che si identifichino in questa cosa e adesso dicono
“Andiamo a passarci un sabato sera così che poi magari si fa
festa fino alle sei del mattino” o cose del genere. Se una volta proponevi
di andare a una serata di danze occitane ti chiedevano se eri matto;
adesso il fenomeno è diventato finalmente popolare (quello
che il liscio ha incontrato negli anni Cinquanta o la disco music
negli anni Ottanta). Fortunatamente si è ritornati a della
musica fatta a mano e non a macchina: questo è più bello
secondo me.
D: La politica occitanista: cosa ne pensi e qual è stato il
rapporto di Lou Dalfin con essa?
Su questo cado male comunque proverò a dirti le cose che penso.
C’è stata una situazione politica importante veicolata da François
Fontan che ha insegnato a tutti qui nelle valli cos’era l’occitanismo,
cos’era anche un determinato tipo di approccio, di riscoperta di questa
cultura. Ogni piccola realtà ha cercato sempre di avocare a
sé e di incamerare il maggior numero di contributi per poi
promuovere le cose della propria piccola associazione culturale.
Se per certi versi può essere stato positivo perché
ha permesso anche a delle realtà come, per esempio, Lou Dalfin
di fare il primo disco, dall’altra poi i prodotti culturali a volte
sono scaduti un po’ nella bassa qualità. C’è una guerra
continua in atto da non so quanti anni sulla grafia.
Ho riletto le pagine di Ousitanio vivo degli anni Settanta e c’era
un qualcosa di veramente militante, avevo visto addirittura il filmato
della sepoltura di François Fontan, c’erano queste cose quasi
da un Che Guevara trasportato qui; oggi invece la situazione è
cambiata. I movimenti occitanisti non hanno saputo secondo me creare
una coscienza occitanista nelle valli, se non solo per le solite persone
che da una vita si occupano di queste cose; si sono presentati alle
elezioni, non ho ben chiara la situazione ma non mi sembra che abbiano
avuto grosso peso.
C’è un nuovo laboratorio politico, PARATGE, che è guidato
da una persona che sicuramente ha un approccio più professionale
(perché anche nella politica bisogna essere professionali)
che è Mariano Allocco; me ne tengo un po’ a latere perché
io, per indole e per interessi personali, sono più rivolto
verso la musica, anche da un punto di vista musicologico cioè
analisi dei testi, studio degli strumenti. Io mi occupo di più
di queste cose, ritengo che sia importante non disgiungere il discorso
musicale dal discorso politico: tutto va fatto però con cognizione
di causa e non sempre c’è stata purtroppo.